Nell’attesa del ritorno del babbo
Il pianto straziante di Antonietta nel corso della notte, la piccola sorellina al suo sesto mese di vita, aveva reso ancora più cupo il buio della misera stanza in cui, tra le braccia di mamma Nilde, lenivo la tristezza per l’assenza da tanto, troppo tempo, del babbo Ettore in quella desolante dimora ove l’avevo osservato ogni mattina accendere il fuoco della stufa attendendo il momento in cui avrei potuto accostare i piedi al forno per sentire il calore salire dai basso sino all’animo mio: un modo alquanto singolare per sentirsi felici e nonostante che, non molti mesi prima, solo un cestello con qualche mandarino e due castagne secche avesse allietato l’avvento del Salvatore.
Ancora non comprendevo il perché. E tuttavia quella notte così gelida, da impedirmi lo sguardo oltre il ristretto orizzonte delle casupole vicine a causa dei graffiti naturali fioriti sui vetri, aveva per me qualcosa di misterioso e antico tanto che avevo già realizzato nel subcosciente l’idea che ciò avvenisse solo ogni arrivo del gelo e più o meno quando il sole si fosse rintanato dietro quel massiccio del pizzo sopra l’alpe Campei tanto alto da sfiorare – pensavo- le luci del mondo stellato.
Avevo atteso invano il babbo ogni mattina, incappucciato alla meglio, mentre la mamma accudiva alla piccola creatura che avevo imparato ad amare per lo sguardo tra lo stupito e l’ansioso ogni qualvolta ella alzava gli occhioni verso quell’ammasso di riccioli biondi e ribelli ai tanti golfini di lana di cui era rivestito e prigioniero il mio corpo.
Il sole era riapparso dal lungo sonno dietro la grande montagna. E la bianca coltre, che ad un certo momento della lunga notte dicembrina aveva sfiorato l’altezza del finestrino che guardava alla mulattiera vicina ove la fontanella si era adornata di lastre di ghiaccio come lacrime impietrite nel magico travaglio della natura, si era sciolta con la lentezza scandita dai raggi solari ogni giorno più tiepidi e tardi a morire oltre l’ultima vetta che segna il confine della Valtellina.
Il sole era riapparso ma non lui, il babbo, ad accendere la stufa e scaldare il latte in cui intingevo degli strani biscotti di cui non ricordo se non la durezza e il colore nerastro.
Fu in quei giorni che, issato da mamma nel sovrastante solaio, io vidi la bieca marmaglia discendere la mulattiera che portava alla contrada Pedrini, in spalla degli strani bastoni (fucili) e tutti vestiti di nero. Alla testa del gruppo un urlante barbuto a gridare parole per me sconosciute. Chiudeva la fila un gigante un po’ goffo nel suo arrancare, e privo di ogni fardello, compreso il fucile che gli era caduto di mano per sfuggire all’assalto dei baldi garibaldini lassù tra l’alpe Prenzera e la Valle Canale.
Compresi molti anni più tardi cosa mai fu e avvenne quel giorno lontano: un casone, o forse una chiesa che brucia al di là dell’Adda, il fiume che solca e divide in due la valle, un parlare sommesso tra le donne, ancora e solamente le donne, immiserite nei loro neri mantelli da sembrare in attesa di rendere onore al marito, al fratello, al parente caduto non si sa dove e perché. Come fu lunga la notte con mamma e la piccola dal pianto ininterrotto e sino a quando, udimmo quel suono: tonante, stonato, allegro fragore delle campane della chiesa del Santo protettore Vittore eretta sulla roccia che guarda al baratro del torrente Livrio tanto da far dire ai suoi parrocchiani che solo gli impazienti di scoprire il mistero del dopo si cimentarono due secoli prima nell’impresa di erigere, lassù, il tempio di Dio. Narrava la leggenda, raccontata dai saggi e atavici vecchi negli anni della mia giovinezza, che qualcuno, abbruttito dalla fatica, cadde dal dirupo sul fondo della valle ma nessuno trovò il suo corpo forse rapito e portato con se da un supremo potere.
Leggende e ancora leggende. Che racchiudono, tuttavia, l’ammirazione e l’amore per chi fu capace di una simile impresa.
Apparve all’improvviso sull’uscio un uomo assai nerbuto e con fare gentile. La folta barba da sembrare quell’orso nascosto nei boschi descritto dai ragazzi più anziani per indurre ai più imberbi timore e paura .
È un attimo. Ricordo lo sguardo. È il babbo! Una folla si assiepa sulla via più sotto. L’abbraccio festoso di ognuno con tutti.
Sale un canto che oggi diresti del grande maestro ma era solo di scherno a quella becera donna del posto che osò per anni difendere il fascismo e la guerra.
“O mia bella petaccina che sei sta la rovina dell’Italia!”
E tutti furono felici sventolando il tricolore della ritrovata libertà.