Da alcuni anni osservo con interesse un grande dibattito a favore del plurilinguismo considerato ormai come una ricchezza fondamentale per i giovani che hanno la possibilità di crescere con due o più lingue fin dalla prima infanzia. Nonostante gli sforzi di vari esperti, tuttavia, il fenomeno denominato plurilinguismo è piuttosto complesso da chiarire e ancora oggi le opinioni a tale riguardo sono piuttosto divergenti.
C’è chi sostiene, infatti, che le persone veramente plurilingui devono essere in grado di padroneggiare perfettamente a livello orale e scritto le proprie lingue di riferimento. Altri, invece, credono che il plurilinguismo si manifesti la semplice conoscenza di poche centinaia di vocaboli di una lingua straniera appresa a scuola. Alcuni, infine, ritengono che una persona possa essere plurilingue se è in grado di usare senza particolari problemi le proprie lingue di riferimento in tutte le situazioni della vita quotidiana in cui si trova (per es. in famiglia, con gli amici, a scuola, al lavoro, ecc.). Nell’uso quotidiano delle lingue si possono commettere anche errori formali (per es. l’uso sbagliato dei congiuntivi o degli articoli) che comunque non dovrebbero impedire la comunicazione con gli altri. Fondamentale è tuttavia l’aspetto affettivo nei confronti delle proprie lingue di riferimento.
Anche sul concetto di ricchezza le opinioni non sono univoche. Ci sono alcuni che vedono nel plurilinguismo una risorsa fondamentale per la costituzione dell’identità di una persona cresciuta tra varie lingue e culture. Per altri la conoscenza di più lingue costituisce semplicemente una grande opportunità professionale da sfruttare al meglio.
All’interno del dibattito piuttosto articolato (e spesso anche caratterizzato da aspetti emozionali piuttosto forti) sul reale significato del plurilinguismo si inserisce la questione della certificazione scolastica delle competenze linguistiche. Soprattutto da quando sono stati elaborati specifici programmi basati sul Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue con la distinzione dei vari livelli da conseguire (da A1 a C2), i sistemi scolastici hanno sentito l’esigenza di misurare e di certificare in modo inequivocabile le prestazioni dei propri alunni. Questa certificazione dovrebbe essere poi presa in considerazione per l’elaborazione di adeguati corricula professionali nei quali apparirebbero quello che si è in grado di fare con le lingue apprese.
Personalmente mi sono sempre chiesto se sia possibile misurare in modo inequivocabile le competenze linguistiche di una persona. Apparentemente sì. La tradizione scolastica ci ha abituato che le prove sulla grammatica o sul lessico strutturato sistematicamente su cicli precisi di lezioni servono proprio a questo. L’opinione di molti è ancora oggi quella che solo a scuola si possono imparare correttamente le lingue, mentre quelle trasmesse a casa dai genitori non sono sufficienti per un’adeguata comunicazione con gli altri. L’atteggiamento di molti insegnanti e autorità scolastiche è quindi ancora caratterizzato da un certo purismo formale che, oltre a disapprovare apertamente ogni devianza linguistica, vede con sospetto qualsiasi contaminazione tra la lingua standard e le altre varietà. A mio avviso si tratta di un atteggiamento che in un certo senso contraddice le opinioni positive verso il plurilinguismo accennate sopra.
Il problema è che, nonostante gli sforzi di apertura fatti negli ultimi anni, i sistemi scolastici rimangono ancora sostanzialmente orientati verso parametri di valutazione monolingui. In un contesto variegato come quello dell’emigrazione italiana in Svizzera risulta essere estremamente difficile valutare con questi parametri le prestazioni degli alunni che frequentano i corsi di lingua e cultura. I motivi sono molteplici e possono essere riassunti in questo modo:
– molti alunni sono in grado di parlare l’italiano appreso a casa in modo accettabile (anche se caratterizzato da imperfezioni di vario tipo), ma hanno difficoltà a scriverlo in modo corretto; questo significa che in caso di esame scritto questi bambini avrebbero valutazioni molto basse non conformi con le reali conoscenze linguistiche; la frustrazione di un esame negativo potrebbe essere grande con possibile abbandono definitivo della prima lingua acquisita a casa, che da lingua madre diventerebbe lingua matrigna;
– due ore alla settimana sono poche per apprendere in modo perfetto una lingua senza la collaborazione dei genitori a casa; si possono valutare sicuramente i progressi linguistici momentanei, magari con ottimi voti su un certo uso specifico della lingua (per esempio gli articoli), ma la capacità di questi alunni di sfruttare il proprio plurilinguismo nelle situazioni quotidiane rimane molto limitato;
– anche molti parlanti nativi hanno diversi problemi a confrontarsi con un certo tipo di certificazione; noi tutti conosciamo le difficoltà ortografiche, grammaticali e lessicali rispetto alla lingua standard di tanti alunni scolarizzati in Italia; in certi casi la loro valutazione potrebbe essere addirittura più bassa rispetto a quella degli alunni italofoni nati e vissuti nella Svizzera tedesca se non addirittura rispetto agli alunni stranieri che per qualche motivo vogliono imparare da zero la lingua italiana; nessuno però contesta a queste persone di essere italofoni a tutti gli effetti, nonostante le imperfezioni, perché allora i bambini bilingui di origine italiana residente all’estero dovrebbero essere considerati come alloglotti a tutti gli effetti?
Si tratta solo di alcune motivazioni che rendono ai miei occhi la certificazione delle conoscenze delle lingue piuttosto problematica. Nonostante tutti i programmi elaborati (con intenti encomiabili) sono sempre più convinto che sia impossibile certificare in modo inequivocabile le competenze linguistiche delle persone. Questo vale sia in situazioni monolingui (anche se per me il monolinguismo non esiste) che plurilingui. Certe valutazioni possono essere invece piuttosto controproducenti. Non è un caso forse che le lingue apprese esclusivamente a scuola tendono a essere, nel corso del tempo, perfino detestate. Sarebbe un peccato delegare esclusivamente la scuola di compiti che spetterebbero in primo luogo ai genitori. Il vantaggio delle lingue apprese a casa è che le madri e i padri, in genere, non mettono i voti alle prestazioni linguistiche dei figli.
Quando si parla di plurilinguismo bisogna fare a mio avviso i conti con l’imperfezione. Chi può dire di padroneggiare perfettamente la propria lingua? Chi può dire di saper capire, parlare, leggere e scrivere allo stesso modo in due o più lingue esattamente come i parlanti nativi? Quali sono i parlanti nativi da prendere come modello di riferimento per le certificazioni? Si tratta solo di alcune domande, tra le tante, che si dovrebbero porre coloro che per qualche motivo hanno deciso di certificare in qualche modo l’acquisizione delle lingue attraverso classificazioni delle competenze solo in parte obiettive. Purtroppo, invece, l’esigenza principale dei sistemi scolastici e professionali è oggi quello di ottenere sempre più certificazioni che cercano di misurare in qualche modo la qualità del prodotto. Ma una lingua non è un prodotto che si può comprare e vendere come gli altri, anche se purtroppo è considerato ormai naturale pagare corsi creati ad hoc che alla fine ti danno delle competenze spendibili in vari ambiti.
Raffaele De Rosa