Un primo maggio senza lavoro. Da Parigi a Lisbona, Da Madrid a Barcellona. Da Atene a Salonicco. Da Roma, Milano , Taranto, in ogni piccola o grande città dell’Italia e dell’Europa mediterranea, la festa del lavoro ha assunto il drammatico significato della disoccupazione di massa. Milioni di aspiranti al lavoro sono scesi in piazza per rivendicare un diritto, per riaffermare la dignità perduta, per gridare al mondo il valore di una cultura. Che è sacrificio, impegno, passione, professione creativa, coscienza di appartenenza, consapevolezza di essere il motore della storia dell’ umanità. Nulla a che fare con quell’altro mondo, l’impero finanziario multinazionale del male. Che guarda al lavoro come un robot impazzito violenta gli scacchi che lui stesso ha costruito con il concorso creativo del genio dell’uomo. Giocattoli, appunto. Braccia di lavoro, senza testa e senza cervello. È , in fondo, l’ammonimento di Max Frisch per il trattamento discriminatorio della Confederazione Elvetica verso le masse di immigrati che bussarono alla sua porta nel disperato dopo guerra italiano. Di che ci sorprendiamo, in fondo? Dopo il referendario 9 febbraio scorso, le truppe blocheriane sono all’attacco. Pensano a un nuovo paradiso svizzero ove è possibile accedere , se si è in buona salute, naturalmente, e per periodi più o meno duraturi a secondo della necessità dell’imprenditoria locale.
Una specie di nuovo stagionalato di massa che cancella la storia di decenni, i passi in avanti verso un futuro più giusto e dignitoso. Nel frattempo, migliaia di uomini e di donne bussano ai porti italici spinti dalla disperazione, in fuga dalle loro terre d’oltre mare ove imperversa il demone della guerra e dell’odio etnico e razziale. Non è un bel tempo per questo nostro continente, al cui centro, non molto aldilà dei nostri confini, suona di nuovo il fragore delle armi. In quella Kiev che visitai più volte ammirandone lo splendore, la straordinaria grandezza culturale e storica del suo popolo. Io, per l’occasione, ho passato il primo maggio a Zurigo. Nulla di nuovo, se non la riconferma di una rituale ricorrenza priva di quel messaggio salvifico di un tempo. Al ritorno verso casa ripenso ai primi maggio della mia gioventù, alle esperienze antiche conservate negli antri nascosti del cuore.. A quella straordinaria, educativa esperienza dello studente operaio. A quegli anni in cui, il solo rivendicare un diritto assumeva il significato di una sedizione condannabile e delittuosa. Il lavoro nel periodo di vacanze scolastiche estive ( Conservo come una reliquia le marchette attestanti il periodo assicurativo. Così si chiamavano, allora, i versamenti assicurativi per la pensione) presso una impresa manifatturiera del luogo specializzata nella costruzione delle persiane, degli stipiti e dei tetti in legno delle case. Turni massacranti. Organizzazione del lavoro in piccoli gruppi. Diretti da capi operai al cui apparire del direttore, o dell’impresario, alzavano la voce stridula del comando a dimostrare obbedienza e rispetto verso il supremo signore. Pensavano, in tal modo, di guadagnarsi perpetuo favore. Erano, in realtà, disprezzati, come a me appariva osservando il loro ghigno mentre si allontanavano. Chiesi un giorno ( eravamo, fortunatamente, quasi alla fine del periodo estivo) all’improvvisato “kapo” il perché di quelle urla ( beli di pecora , in dialetto valtellinese) improvvise: licenziato in tronco e addio per sempre a quelle maledette tapparelle.
Più tardi, a diploma acquisito, e grazie alla raccomandazione di un mio parente, venni assunto come tecnico in una impresa addetta alle costruzioni del genio civile. Due settimane di fuoco terminate con la richiesta di una firma su un testo non da me scritto. Una minaccia di sfratto immediato agli innumerevoli inquilini incapienti e l’ingiunzione di colmare al più presto il saldo dell’affitto. La richiesta era, forse, legittima. Il testo, minaccioso e insultante nella forma, indegno e inaccettabile. Me ne andai all’istante, precedendo, il tal modo, l’annuncio del licenziamento. Sto ancora attendendo, nella speranza, tuttavia, che quei bravi imprenditori e i loro eredi non siano più del campo, il risarcimento di quella quindicinale attività. Mi rimaneva a quel punto il disperato tentativo della scommessa universitaria al cui fallimento ( date le condizioni ) non mi rimase che la via dell’estero. La Francia dapprima. La Svizzera poi. In seguito l’Africa. In quella Libia cirenaica, a capo degli anni sessanta settanta, in cui assistei ai più selvaggi sfruttamenti dei piccoli negretti del Ciad. Scaricatori al porto, operatori sugli alti piloni in costruzione, a maneggiare quei vibratori del calcestruzzo più grandi di loro.
Qualcuno, devastato dalla fatica e da mal nutrizione, crollava all’ingiù verso il baratro del fondo collina. La benna di un trax gommato ne raccoglieva i resti senza che nessuno, se non i suoi compagni venuti con lui dal deserto, fosse lì a piangere e invocare la grandezza di Allah. Un giorno, a uno di loro, aiutante in carpenteria, la lama gli squarciò i muscoli delle gambe rattrappite. Pensavo che fosse, per lui, una orribile fine. Lo lavammo e curammo con le medicine di campo. La penicillina in polvere di allora fece il miracolo. Guarì. Poco tempo dopo, alla mia partenza per l’Italia, passai al porto a salutarlo. Ancora vedo i suoi occhi imploranti nel pianto dell’addio. Lui, non conosceva il messaggio del primo maggio. Era scritto, tuttavia, nello sguardo acceso e disperato: dignità e speranza in un mondo migliore.