Osservo, dal finestrino, la campagna del lionese che costeggia il Rodano. Di solito gioiosa, animata dal suono dei campanacci delle mandrie al pascolo o intente a ruminare il verde miscuglio, oggi, in questo mattino siberiano del 16 gennaio duemila diciassette dell’anno del signore, di un silenzio spettrale, assopita, da sembrarmi estinta sotto il gelido manto di neve arrivato un po’ tardi a seppellire ogni cosa nell’attesa del cinguettio del passerotto coraggioso che saluta il primo raggio di sole del mese che verrà.
Già, il tema che ritorna. Così presente nella civiltà contadina delle nostre montagne e delle vallate prealpine. E ci dice come dicembre e gennaio siano i mesi in cui tutto sembra inanimato, assente, immerso in un coma profondo come per indicarci il momento in cui questo nostro piccolo mondo, ruotante attorno alla sua stella, non accoglierà più il calore e la luce dei suoi raggi per divenire uno dei mille ammassi di roccia e ghiaccio che popolano l’immensità del cosmo dalla notte dei tempi. Che ne sarà di noi? Non domani, naturalmente. Ma, forse, tra alcuni milioni di anni – per l’universo un attimo – se il nostro ingegno non avrà trovato la forza per sfuggire al buio delle tenebre e salpare verso l’immensità dell’ignoto come fece Ulisse, nell’universo d’allora, prima dell’approdo alla sua terra amata.
Squarci di mondo antico hanno distratto il pensiero.
Lo sferragliare dell’ intercity all’entrata della Gare de Lyon mi richiama alla realtà quotidiana.
Non c’è più tempo per volare nell’infinità del cosmo come usavi fare, da infante, sull’alpe amica, in Prenzera, scrutando i misteri delle notti stellari mentre il nonno Ernesto avvolgeva il tuo corpo del manto che ti avrebbe protetto nel sonno.
Mi aspettano Enrico e Angelo, i tanti amici con cui ho vissuto le vicende italiane nella terra del Rodano Alpi e a cui sono legato da profonda amicizia dal giorno in cui accorsero, nei primi anni novanta del secolo che fu, al convegno sull’emigrazione italiana nella terra dei galli.
Parliamo del tanto che ci unisce. Del nostro impegno a sostegno dei fratelli di Norcia e Amatrice, alcuni di loro presenti all’incontro per dirci che nulla è perduto se prevale la forza del fare unita al contributo solidale di chi vive lontano senza aver dimenticato la dimora natia.
Le storie, quelle mie, raccolte in un libro, sono servite, ovunque, a Zurigo come a Rombas, a Losanna, Ginevra e altrove a raccogliere briciole di umana solidarietà per chi ha perduto ogni cosa ma non la speranza e l’onore.
Arrivederci, cari amici, mi aspetta Gerardo, a Marsiglia, ove vado a ricordare una antica e malvagia vicenda che, se non per la tenacia unita all’impegno dei nostri emigrati, sarebbe affossata nell’oblio della perduta memoria.
Aigues-Mortes, una piccola cittadina nel sud della Francia da cui partì un re Luigi di Francia con i suoi crociati verso il Santo Sepolcro occupato dagli infedeli.
Aigues Mortes con le sue saline, ove lavorano centinaia, forse migliaia di lavoratori schiavizzati da padroni perfidi e assassini, che approfittano della presenza di poveri lavoratori piemontesi, lombardi, toscani e liguri per negare i più elementari diritti a ognuno, compresi gli addetti francesi.
Il risentimento degli operai locali si ripercuote contro gli italiani.
Scene selvagge di ferocia sino al linciaggio. Feriti abbandonati esamini al suolo o gettati, vivi, in un vicino canale.
Ancora oggi, eravamo nell’agosto del 1893, pochi decenni dopo la conquista dell’unità nazionale, nulla è stato rivelato del numero dei morti: trenta, quaranta, forse cinquanta? Una macchia nera della vergogna: per le autorità francesi, che hanno coperto la tragedia per non punire i colpevoli; e per le autorità consolari italiane ree di ignavia illimitata.
Le vittime sono sempre gli ultimi, venuti da un’ altro mondo, sui quali è facile scaricare egoismi, prepotenze e paure.
Quanta assonanza con i nostri tempi! Con i lamenti delle anime perdute negli abissi del “mare nostrum” al cospetto di una mostruosa noncuranza.
Grazie ai compatrioti di Marsiglia, Aigues Mortes non è caduta nell’oblio.
Assieme, un ventennio or sono, in accordo con l’autorità francese, erigemmo una stele a ricordo.
Eravamo in tanti, in quel piovoso mattino, a sperare che il sale della terra potesse coprire, con l’aiuto della gocciolante nuvolaglia, il rosso dell’antica e nuova vergogna.
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