Dal primo aprile è entrato in vigore il trattato tra l’Italia e l’India in materia di giustizia, in base al quale il condannato potrà scontare la pena nel suo Paese
Il primo aprile è entrato in vigore il trattato tra l’Italia e l’India in materia di giustizia. Del trattato si discuteva da circa dieci anni ma solo la scorsa estate fu firmato, con entrata in vigore posticipata, come detto, a partire dal primo aprile scorso. Ad annunciare la notizia è stato il ministro degli Esteri, Emma Bonino.
Quali sono i punti fondamentali del trattato? In caso di condanna definitiva, il condannato può scontare la pena nel suo Paese. Apparentemente non c’entra la vicenda dei due marò, ma di fatto essa ne ha accelerato l’iter, tanto è vero che le discussioni sono avvenute in maniera stringente proprio nel periodo che va da febbraio fino all’estate dello scorso anno.
L’Italia aveva posto la questione della titolarità della giurisdizione, essendo avvenuto il presunto reato in acque internazionali, ma di questo l’India non ne ha mai voluto e continua a non volerne sapere. Il tribunale speciale, una volta che avrà iniziato il suo compito, darà ragione all’India. Dunque il processo si farà a Nuova Delhi.
L’Italia aveva posto all’attenzione della comunità internazionale la necessità di un arbitrato ad alto livello per decidere chi avesse ragione in base ai trattati internazionali sulle acque, ma nemmeno di questo si parla più nei rapporti tra i due Paesi. Insomma, l’India giudicherà i due soldati italiani e avrà due possibilità. O li assolverà, una volta stabilito che i due pescatori sono stati uccisi dagli italiani, per aver agito in buona fede oppure, come è probabile, li condannerà, e in questo caso i due potranno lasciare l’India e scontare la pena in una prigione italiana. A questo punto, la magistratura italiana potrebbe aprire il processo in Italia e riconoscerli colpevoli o innocenti. Una specie di processo alternativo legittimo.
In fondo, l’India ha ragione solo perché ha il coltello dalla parte del manico, ha cioè i due soldati sul suo territorio. Nel caso fossero condannati in India e scontassero la pena in Italia, la ragione tornerebbe agli italiani perché, avendo i due marò al sicuro, automaticamente avrebbe dei vantaggi nel giudizio. In sostanza, come adesso l’India può fare quello che vuole, così, una volta in Italia i due soldati, il nostro Paese avrebbe buon gioco.
Resta il fatto che l’Italia non si è comportata bene nella vicenda dell’annuncio del non rientro in India dopo la licenza elettorale e nella marcia indietro dopo le reazioni indiane. La vicenda fu gestita male già dall’inizio, quando il comandante della nave accettò di tornare indietro su richiesta della guardia costiera dello Stato del Kerala, scoprendo poi che la motivazione era stata un imbroglio. L’altro grande errore, una volta che la Enrica Lexie attraccò al porto indiano e fu sequestrata, fu di non chiedere l’aiuto dell’Onu o delle grandi potenze. Il terzo grande errore – quello che ci è costato una figuraccia di fronte alla comunità internazionale – fu di aver prima annunciato che i due marò non sarebbero rientrati in India alla scadenza stabilita dalla Corte Suprema indiana e dall’ambasciatore Daniele Mancini, poi di essersi “ravveduti” sotto costrizione, un rattoppo che non annullò la figuraccia rimediata.
Comunque sia, ora bisogna guardare in avanti. L’Italia collaborerà con le autorità giudiziarie indiane mettendo a disposizione dei giudici uomini (testimonianza tramite videoconferenza da parte degli altri soldati presenti sulla nave) e mezzi. L’obiettivo è quello di riportare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in Italia. L’esito del processo in India, ormai, ha un’importanza relativa, che sia di assoluzione o di condanna. Lo strumento giuridico di tanto ottimismo risiede appunto nel trattato in vigore tra i due Paesi. I due marò ritorneranno comunque in Italia, e pare che il processo subirà un’accelerazione imprevista. Tutti, sia l’Italia che l’India, hanno l’esigenza di mettersi la vicenda alle spalle in maniera definitiva.