Attualmente in proiezione nelle sale svizzere “Cittadini del mondo” (“Lontano lontano”), una commedia che inneggia ai sentimenti più genuini e spontanei dell’animo umano. Con la regia di Gianni Di Gregorio, vincitore del David di Donatello nel 2009 per “Pranzo di Ferragosto”, che porta sul grande schermo un bellissimo messaggio di solidarietà e speranza. Così ce ne parla il regista…
Gianni Di Gregorio, autore, regista e attore di “Cittadini del mondo”, hai raccontato che l’idea ti è stata suggerita da Matteo Garrone (regista Dogman – Gomorra). A tuo parere, perché ha pensato a te per questo film?
Sì è vero, è stato proprio lui. Mi ha detto esattamente questo: “tu sei specializzato in vecchietti, pensionati e terza età. Dovresti fare un film sui pensionati poveri che vogliono andare via dall’Italia”. L’idea mi è piaciuta tantissimo, ci ho lavorato per 3 anni e dall’idea originaria con un pensionato, sono passato a tre, ciascuno con la propria vita, personalità e modo di essere. Mi sono divertito moltissimo a scrivere di questi personaggi. Uno, il Professore, sono proprio io. Nella vita dovevo fare il professore, anche se poi non mi sono laureato, sono un po’ vigliacco e bevitore di vino come lui. Anche gli altri due sono personaggi particolari e mi sono divertito a scriverli.
Ennio Fantastichini per il suo personaggio, Attilio il rigattiere, si è ispirato con amore ad un suo amico che vendeva mobili a Porta Portese e che aveva fatto il bagnino e viaggiato da giovane, così, in ricordo di questo suo amico, ha creato il suo personaggio. Giorgio Colangeli, invece, per il ruolo di Giorgetto, si è ispirato ad un noto e famoso romano di Trastevere chiamato “il Vikingo”, che appare nel mio primo film, il “Pranzo di Ferragosto”. Era il tipico romano che staziona al bar, incolto perché non era stato mai a scuola, ma che gli potevi parlare di tutto. Era un filosofo di strada, che conosceva tutti e tutti gli volevano bene. Quando è morto, al suo funerale c’era una miriade di gente ed io capii che aveva creato qualcosa di grande nel quartiere. Giorgio Colangeli, che interpreta il popolano tra i tre personaggi, ha riproposto proprio questo personaggio fatto di aria, molto trasparente, difficile da interpretare, ed è stato bravissimo. Mentre però ero alle prese con la scrittura, è subentrato un quarto protagonista. Nel frattempo, infatti, avvenivano gli sbarchi di immigrati in Sicilia con tutte le storie, le morti nel Mediterraneo, questa realtà è entrata nel film insieme al quarto protagonista, Abu, il ragazzino africano. È nata così la figura del migrante che è il vero viaggiatore dei nostri tempi e che più di altri ha diritto a partire.
Come è avvenuta la scelta degli attori protagonisti?
È stata una cosa bellissima perché io ero un po’ innamorato di questi due attori, ma non li conoscevo di presenza. Volevo che fossero loro, Giorgio Colangeli ed Ennio Fantastichini, ne ho parlato col produttore, ma li ho voluti conoscere prima delle riprese. Così ci siamo incontrati in una trattoria per parlare un po’ del film ed è successa questa cosa bellissima, perché è stato come se ci conoscessimo da 30 anni, non abbiamo parlato affatto del film, ma ci siamo ubriacati assieme e per me il film è cominciato lì.
È un po’ quello che capita anche in “Cittadini del mondo” ai tre protagonisti che entrano subito in sintonia…
Sì, esatto. Era proprio quello che volevo, far vedere questo legame spontaneo e genuino, volevo ribadire che le cose belle dell’amicizia stanno nelle piccole cose e noi, anche se abbiamo tanto ci lamentiamo di quello che abbiamo, ma c’è gente che sta peggio di noi. È un po’ il discorso del “poraccio” che accenna Attilio quando parla con la figlia nel film, in un certo senso sono “poracci” pure loro, ma c’è chi è davvero un “poraccio” più di loro!
Sicuramente un tratto che vi unisce è la romanità, cos’altro vi ha reso così affiatati?
La romanità è fondamentale, ma anche questa forma di umanità che caratterizza i personaggi, insieme ad una sorta di leggerezza che è tipica romana. Il romano autentico è aperto agli altri, tollerante, uno di quelli che trovi non in tutti bar, ma in certi bar, che se arriva qualcuno che non conosce, dopo solo 5 minuti, spontaneamente iniziano a parlare e diventano amici. Questa specie di apertura e di tolleranza e anche di grande curiosità è sempre appartenuta ai romani. Anche questo quartiere, Trastevere, dove io sono nato e ancora vivo, è un posto dove passa tanta gente, e quindi è un punto d’osservazione molto importante. Che per me però è anche la rovina, perché non riesco mai ad allontanarmi troppo da Trastevere col mio cinema.
Anche questo è un tratto peculiare che ritroviamo nei personaggi: due di loro, infatti, non erano mai usciti da Roma, addirittura non erano mai stati neanche a Terracina…
No, infatti non c’erano mai stati (ride). E anche questo è un tratto particolare: per un vecchio romano uscire da Roma è una fatica enorme! E mi divertiva quest’idea di spingerli fino a Terracina per mangiare il cocomero, che rappresenta comunque un punto di arrivo. Anche se non partono, trovano l’amicizia e una vita più ricca, dove il sentimento ancora conta. Sono pure cambiati, anche se non se lo ammetteranno mai. Li ha cambiati molto questa situazione, oltre ad aver trovato un amico in Attilio, che poi diventa quasi il leader e li trascina un po’ in giro: si capisce che tra Terracina e dintorni i tre non staranno più fermi al bar!
Una curiosità sul tuo personaggio: “Il Professore” è l’unico che non è chiamato con il suo nome. Come mai questa decisione?
È vero, ma sai perché? Negli altri film che ho fatto c’era sempre un riferimento biografico preciso, invece in questo caso volevo che fosse un personaggio più a sé, anche se alla fine sono sempre io, ma in maniera indiretta. Però mi piaceva che fosse solo “il professore”, come si usa nei quartieri romani. Solitamente uso sempre i nomi veri degli attori, è una cosa che viene dal neorealismo, tendo a fare un cinema profondo e mi fa piacere quando gli attori mettono qualcosa di proprio eåå di autobiografico, così dall’astrazione si passa a qualcosa di concreto. Io no, non avevo il mio nome, ma come già detto non manca il riferimento alla mia persona.
Tornando ai tuoi compagni di viaggio, come è stato dirigerli?
Guarda, credevo che fosse terribile, perché si tratta due grandi attori e io non avevo mai avuto attori così bravi. Quei due erano proprio travolgenti e con loro metto anche Roberto Herlitzka (nei panni del Prof. Federmann, ndr), meraviglioso anche lui. È stato come se mi avessero detto sali in macchina e parti, ma mentre io credevo di dover guidare una macchinetta mi sono trovato una Ferrari: erano delle macchine da guerra, inventavano, improvvisavano. Sì, dovevo dirigere, ma in verità mi sono trovato quasi travolto dalla potenza di questi attori. Purtroppo, subito dopo il film Ennio (Fantastichini, ndr) è venuto a mancare. Non ha neanche visto il montaggio finale, è stato un dolore enorme, e non ci siamo potuti fare le nostre risate insieme. Ho potuto costatare l’uomo di grande umanità e tensione morale che era, per cui è stato un incontro meraviglioso e una perdita per la quale stiamo ancora male.
Più che il viaggio in sé, assistiamo all’organizzazione del viaggio che ha animato la vita di questi tre uomini che, invece che nelle Azzorre, sono finiti a mordere un cocomero a Terracina. Questo per dire che non è necessario andare lontano per vivere le belle cose che la vita ci offre?
Sì, non occorre andare lontano perché c’è tanta gente attorno a noi. Quello che conta, infatti, penso che sia proprio la gente. Nei rapporti umani c’è la ricchezza che è in ogni luogo. Dobbiamo pensare un po’ di più a chi ci sta attorno e in modo particolare, noi di una certa età, dobbiamo pensare ai giovani e questa era una cosa che volevo far emergere.
Ad un certo punto, attraverso l’arrivo di Abu nel film, subentra il tema attuale dell’immigrazione visto da un’ottica a cui negli ultimi tempi non siamo abituati, cioè quello della solidarietà spontanea ed empatia verso chi sta peggio. Come sei arrivato ad indagare su questo tema?
Questo personaggio è arrivato anche perché quando esco di casa ce ne sono tanti di questi ragazzetti come Abu, è una realtà che ormai fa parte integrante della nostra vita e ne ho voluto parlare. Loro arrivano, ma sono di passaggio perché continuano il loro viaggio, come per il personaggio del film. Il ragazzo che ha fatto questa parte è proprio un vero migrante, non è un attore. Proprio come Abu, è arrivato dal mare per provare a raggiungere la famiglia in Canada e adesso abbiamo saputo che, proprio grazie ai soldi che ha guadagnato dal film, si messo in viaggio per la sua meta. Spero che sia già arrivato. È una storia straordinaria e molto commovente. Questo motivo è scivolato così, senza pretese, nella loro storia e grazie ad Attilio che è quello che dirige un po’ la banda e per primo prende la decisione di aiutare il ragazzo. È un gesto che nasce spontaneamente senza alcuna retorica, lo aiutano in maniera assolutamente spontanea perché ad una certa età è giusto pensare ai giovani e ai ragazzi per dare un senso al futuro, è questa l’idea di fondo del film.
Questo è il tuo quarto film come regista, una carriera che è iniziata con il grande successo “Pranzo di Ferragosto”. Stai già pensando al lavoro successivo?
Ti confesso disperatamente, perché i soldi stanno per finire (ride), ma io ci metto un po’ per fare i film, anche se poi lo tratto in maniera leggera o fa ridere. Per ora ho delle idee vaghe, ma finché non sono certo non mi espongo. Per alcuni mesi ancora sarò impegnato con la promozione di questo film che, devo dire, sta andando bene ed è stato venduto in tutto il mondo. Ma per fare un film bisogna assorbire quello che viene dal mondo e poi bisogna chiudersi a lavorare su ciò che ti arriva… e nonostante l’età io non riesco a chiudermi!
Eveline Bentivegna