Per gli addetti ai lavori, minaccia terroristica rimane
Il Califfato “è stato spazzato via”, “è stato eliminato al 100%”. Così lo scorso 18 febbraio, il presidente americano Donald Trump annunciava via Twitter il trionfo sui jihadisti dello Stato Islamico Isis che venivano definitivamente sconfitti ad al Baghouz, ultima sacca di resistenza nell’estremo Est siriano.
Toni trionfalistici quelli dell’amministrazione Usa, in contrasto con l’opinione di molti esperti di terrorismo jihadista che temono la nascita di un “nuovo Isis” oppure l’ascesa di altri gruppi jihadisti e non necessariamente solo in Siria o Iraq. Paesi come lo Yemen, la Libia e l’Afghanistan sono tutt’altro che immuni dal ‘virus’ jihadista. Infatti se è vero che il Califfato è finito con la sua forma di Stato, nulla può fare escludere il ritorno alla forma tradizionale della jihad mordi e fuggi; ovvero il rilancio di organizzazione militante che, operando in clandestinità, semini il terrore attraverso attentati suicidi. La settimana scorsa, il leader curdo-iracheno Massud Barzani, che ha conosciuto sul campo di battaglia i jihadisti andando spesso sul fronte durante la guerra all’Isis, ha messo in guardia dal dare per morto il Califfato. E ha messo in guardia dalla nascita del “mito” di un epopea islamista che ha fatto sognare i seguaci della Jihad ad oltranza in tutto il mondo.
Dalla Conferenza di Sicurezza dello scorso febbraio a Monaco, in Germania, i media si sono concentrati sui toni trionfalistici di Trump. Mentre le considerazioni più significative sul rischio di abbassare la guardia sono arrivate dagli addetti ai lavori: tra questi, il capo del servizio segreto di intelligence britannico MI6 Alex Younger, che ammonisce: “La sconfitta militare dell’Isis non rappresenta la fine della minaccia terroristica, ma la vediamo diffondersi all’interno della Siria e anche esternamente”. Younger ha sottolineato che “questa è la forma tradizionale di un’organizzazione terroristica”.
Anche la ministra della Difesa tedesca Ursula von der Leyen, intervenuta nello stesso evento, ha sostenuto che l’Isis sta ”costruendo reti con altri gruppi terroristici”. Ancora, il generale Joseph Votel, capo del Comando centrale delle forze armate Usa, ha avvertito che, sebbene la rete del ‘Califfo’ Abu Bakr al Baghdadi, sia in ginocchio, la pressione deve essere mantenuta: i jihadisti avranno “la possibilità di tornare insieme se non lo facciamo”.
Al di là degli avvertimenti degli esperti, la fine del Califfato nero che, al suo apice, governava una regione delle dimensioni della Gran Bretagna, limiterà la capacità del gruppo di reclutare combattenti e raccogliere finanziamenti e costringerà i suoi reduci a competere oppure ad allearsi con altre organizzazioni jihadiste. Le stime sul numero di combattenti dell’Isis dispersi tra Siria e Iraq vanno da 20’000 a 30’000, molti di questi, a mano a mano che perdevano terreno in Siria, sono stati inviati dal regime a Idlib, grande roccaforte jihadista nel Nord-ovest della Siria. A Idlib comandano con un pugno di ferro gli ex qaidisti del Fronte per la Liberazione della Grande Siria; e questi finora non hanno dato la caccia ai loro ‘ex fratelli’ dell’Isis.
In Iraq, i jihadisti portano avanti attacchi sempre più consistenti nelle province settentrionali anche dopo la caduta della loro roccaforte Mosul. Nella terra della Mesopotamia, i jihadisti possono infatti contare sempre sulla paura delle popolazioni sunnite di finire di nuovo vittime di rappresaglie sciita. L’Iraq, come ha sottolineato di recente un approfondimento della BBC, “ha disperatamente bisogno di un processo di riconciliazione nazionale e di un governo inclusivo per evitare la rigenerazione dell’Isis”.
Mentre in Siria “il fattore che ha scatenato la catastrofica guerra civile si trova ora vittorioso nel suo palazzo a Damasco”. Il regime del presidente Bashar al-Assad, salvato dal naufragio dai suoi alleati russi e iraniani, appare più solido che mai: i crimini commessi da Damasco in quasi 8 anni di conflitto, continueranno a spingere alcuni ad impugnare le armi permettendo così all’Isis di reinserirsi nello spazio di battaglia siriano.
Da tenere in conto la presenza di concentrazioni di milizie che seguono la dottrina del Califfato in Somalia, Libia, Egitto, Africa occidentale, Afghanistan e Filippine meridionali. E’ vero che l’Isis è fallito come ‘Stato’, ma l’ideologia che ha promosso non è stata scalfita.
Askanews