Le manifestazioni di piazza in Algeria e in Tunisia, che hanno il carattere della ribellione e della disperazione, sono probabilmente solo la spia di un malessere più profondo che investe quei Paesi, ma non ci stupiremmo se dopo l’Algeria la protesta si propagasse ad altri Paesi del Nord Africa. L’impressione è che stiano venendo al pettine dei nodi irrisolti che riguardano buona parte dell’Africa. Tanti anni di assistenzialismo da parte dei Paesi occidentali hanno aiutato quelle popolazioni a sopravvivere, ma non hanno prodotto lavoro, benessere, infrastrutture, industrie e sviluppo economico.
Ora che il mondo è attanagliato da una crisi economica senza pari, i Paesi africani rischiano di precipitare nella disperazione.
Non è azzardato prevedere che nel futuro più o meno prossimo, molto di più di quanto non sia già avvenuto in passato, milioni di persone, spinti dalla fame, cercheranno di raggiungere l’Europa. Il vecchio continente rappresenta ancora un miraggio per tanti Paesi sottosviluppati, ma la realtà è che il suo livello di benessere sta per essere messo in discussione.
Il tasso di disoccupazione nei Paesi dell’Unione, malgrado la ripresa sia un dato reale, si attesta sul 10,1%. Finora la ripresa non si traduce in posti di lavoro e non è detto che accadrà in futuro. In epoca recente le aziende si sono spostate nell’Est, dove il lavoro costava di meno, ma ora la crisi e le arretratezze di quelle regioni hanno costretto gli imprenditori a fuggire anche da lì, magari per guardare ai Paesi cosiddetti emergenti, tipo Brasile e Cina, dove le prospettive di crescita e di sviluppo sono più solide e più reali. Se questo è vero, c’è poco da stare allegri.
Per mantenere un certo livello di benessere, anche in Europa bisognerà rinunciare a diritti e benefici e sarà difficile accogliere e integrare quella massa che proverrà dal Sud del mondo. Le storture a livello sociale che abbiamo visto negli anni scorsi sono nulla rispetto a ciò che potrà ancora accadere. I Paesi emergenti del Sud America e dell’Asia, che hanno un tasso di crescita elevato, in realtà hanno problemi enormi: conoscono tassi alti di sviluppo, ma le differenze sociali sono abissali: una piccola parte sta bene, una grandissima parte sta male o molto male. Se comunque le loro economie crescono, i vantaggi sono tutti all’interno, non costituiscono un fattore di ricchezza anche per noi. L’Italia non potrà sfuggire alla sorte europea, anzi, dovrà stare molto attenta. Il ministro Tremonti ha detto chiaramente che “la crisi non è finita” e bada a tenere i conti sotto controllo perché il rischio di un tonfo non è scomparso. Molti si lamentano che non vengono dati i soldi per finanziare settori importanti, ma la realtà è che pur essendo la ripresa lieve ma reale, pur essendo il tasso di disoccupazione inferiore a quello europeo (8,7 contro il 10,1), il nostro Paese deve scontare i disastri del passato. È come un centometrista che deve correre con i pesi ai piedi: sta bene, ma fa fatica. E la fatica sono le pensioni date a chi aveva 40 anni, l’orario unico negli uffici e contemporaneamente il tasso elevato di improduttività e di assenteismo, la pressione fiscale notevole per le imprese, gli sprechi che finanziano la casta politica (200 mila persone), le corporazioni e il clientelismo.
Per l’Italia ci vorrebbe una cura Marchionne (investimenti e occupazione, ma produttività e qualità), altrimenti chiunque governi, ora o nei prossimi vent’anni, dovrà gestire il Paese per limitare i danni. Insomma, in Europa l’Italia poteva stare molto meglio e invece dovrà lavorare di più per reggere l’urto.
Un secolo fa, di questi tempi, si stava andando verso la prima guerra mondiale; per fortuna non siamo in quelle condizioni, ma gli sconvolgimenti economico-sociali sono pesanti e non meno gravi, e per maggioranza e opposizione non c’è retorica massimalista che tenga.
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