“Ho deciso di fare il Cammino di Santiago soprattutto perché a 55 anni avevo necessità di fare un bilancio esistenziale”, Salvatore Smedile, italiano che per molti anni ha vissuto in Svizzera ci ha racconta del suo ultimo libro “La volontà dell’ovest”, ovvero di quando è partito da Roncisvalle per il cammino di Santiago
Siamo curiosi di conoscerla: come inizia la sua storia?
Sono nato a Winterthur nel 1959, sono figlio di emigranti e conosco bene “La Pagina”. Mio padre è stato per tutta la vita un fedele abbonato al vostro settimanale e se lo faceva spedire in Sicilia e Thailandia, dove ha trascorso l’ultima parte della sua vita, da mio fratello che abita a Zurigo.
“Un emigrante coltiva sempre nel cuore il sogno di poter rientrare nel luogo dove si parla la propria lingua madre”
Ho vissuto in Svizzera fino al 1992, dove ho insegnato italiano commerciale presso scuole private. I miei allievi erano svizzeri di parte tedesca che, per motivi professionali, dovevano apprendere velocemente una lingua molto diversa dalla loro. Ricordo con grande tenerezza che una volta uno studente mi ha chiesto se potevo insegnargli la gestualità italiana. Come si fa? Non esiste una grammatica del gesto. Ce l’hai o non ce l’hai.
Un emigrante coltiva sempre nel cuore il sogno di poter rientrare nel luogo dove si parla la propria lingua madre. A me l’occasione è capitata nel 1991. Durante un viaggio al Salone del Libro di Torino per presentare un mio volume, conosco Chiara, anche lei nata a Winterthur, i cui genitori, a differenza dei miei, sono rientrati in Italia quando era ancora piccola. Dopo un anno di spola tra Winterthur e Torino, nel ’92 mi trasferisco in Italia e ci sposiamo. Come si può dire che la scrittura non muove la vita?
Ad Alpignano, paese all’imbocco della Val di Susa, mi invento un nuovo lavoro. Mi avvicino agli ambienti delle comunità che raccolgono i fuoriusciti dell’ex ospedale psichiatrico di Collegno, frequento la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari che fa capo a Duccio Demetrio e intanto mi specializzo e divento Educatore professionale.
In quegli anni scopro il teatro e, insieme ad altri attori, fondo Urzene, associazione che produce spettacoli di area sociale insieme ad attori disabili. Il mio ruolo nel gruppo è soprattutto quello di Dramaturg.
“Ho deciso di fare il Cammino di Santiago soprattutto perché a 55 anni avevo necessità di fare un bilancio esistenziale”
Dieci anni fa è partito per un viaggio a Santiago, cosa l’ha spinta a fare questo viaggio e come si è preparato?
Come sempre la vita professionale e personale non sono disgiunte. In Piemonte, come si fa ad alzare gli occhi senza ammirare la catena montuosa delle Alpi? Sia per motivi di lavoro che per piacere ho iniziato a conoscere il territorio percorrendolo a piedi. Non c’è modo migliore per comprenderlo e viverlo in profondità. Sui suoi sentieri si trovano spesso le indicazioni della Via Francigena. Ho deciso di fare il Cammino di Santiago soprattutto perché a 55 anni avevo necessità di fare un bilancio esistenziale (“Bilanz” mi suona di più). L’anno precedente, in vacanza sui Pirenei, vedevo ogni giorno pellegrini di ogni età transitarmi accanto. A volte offrivo loro dell’acqua o della frutta, una volta anche un pezzo di pane. L’idea è nata così. Non avevo motivazioni religiose e cosa sarebbe stato realmente il Cammino per me lo avrei compreso percorrendolo.
Da Roncisvalle a Fisterra: quali esperienze ricorda con più piacere?
Prepararsi per 800 km da percorrere nell’arco di un mese implica un piano di allenamento graduale. Il fisico è sottoposto a una sollecitazione quotidiana e non si ha il tempo di recuperare. Partivo con lo zaino pieno di libri o taniche di acqua di 10 litri per rinforzare le spalle e le gambe.
Nelle 33 tappe del viaggio, ogni giorno è accaduto qualcosa di significativo. Tra le esperienze più importanti, sicuramente c’è quella di Roncisvalle dove, tra l’altro, mi è stata rubata la mia preziosa mantella impermeabile. Non me la sono presa più di tanto, anzi, col senno di poi è stato qualcosa di provvidenziale: ne ho comprata una che teneva meglio l’acqua. E per dieci giorni ne ho avuto proprio bisogno. Dopo una tappa massacrante di vento e pioggia gelata dei Pirenei, la prima cosa che ci chiedono all’ostello è di compilare un formulario sulle ragioni per cui siamo in viaggio. Mi si è aperto un mondo, perché vi erano elencate le motivazioni più varie, non solo religiose ma anche spirituali nell’accezione più larga, personali, sportive ed altro. Una lista lunga. Da laico, ho iniziato a pensare dove collocarmi. E il ragionamento, a distanza di anni, è ancora in corso.
Altro bel ricordo è Puente de la Reina, sempre giornata fredda e piovosa. Alloggiamo in un ostello con una forte concentrazione di lingue diverse. C’è poco pane, l’hospitalero ce lo comunica in maniera non troppo diplomatica e con alcuni italiani nasce una questione che stava volgendo in rissa. Non è stato facile calmare gli animi dell’hospitalero e dei pellegrini che reclamavano il meritato pane dopo la dura fatica. Ma la cosa più bella è stata potere vedere in diretta la finale di Champions League tra Real Madrid e Atletico Madrid. Il nostro Ancellotti contro El Cholo. Seguo il calcio non da tifoso ma quella partita mi sembrava importante. Chiediamo al referente dell’ostello il permesso di guardare, eccezionalmente, la televisione fin oltre le 22. E così, a condizione di non urlare e trattenere la gioia per sé, sei pellegrini di nazionalità diversa assistono alla finale tra il russare di tutti gli altri. Ai supplementari, Il Real Madrid, con il nostro Carletto, ha vinto la sua decima Coppa dei Campioni. In coda alla poesia dedicata a Puente de La Reina c’è un riferimento esplicito alla Décima.
Altra tappa che non scorderò mai è Fisterra. Il clima si era messo bene e i miei compagni desideravano fare ancora qualche giro nei dintorni. Io, però, dovevo leccarmi le mie ferite e ho trascorso gli ultimi giorni del Cammino con i piedi in ammollo nell’oceano. Inoltre, avevo bisogno di dare forma a quelle domande che avevo iniziato a pormi a Roncisvalle: cosa avevo vissuto, chi erano tutte quelle persone che avevo conosciuto, perché a Santiago avevo chiamato a casa e non riuscivo a parlare? Ma la cosa più curiosa è aver conosciuto Salvatrice. “Vai nella caffetteria dove lavora e presentati. Anche lei ti aspetta”, mi avevano detto. Così: “Buongiorno, sono Salvatore. Sei tu Salvatrice?”. Ci siamo guardati e uno ha chiesto all’altro “che ci fai qui?”. Da Salvatrice andavo a fare colazione e merenda. A distanza di mesi sono ritornato a Fisterra con mia moglie. Ci tenevo a presentargliela e mangiare con lei una fetta delle sue torte, ma non era più lì.
“Ogni mattino, quando ancora è buio, un popolo di viandanti si mette in moto verso il mare e tu ne sei parte”
In “La volontà dell’ovest” parla di questo viaggio a Santiago, com’è composto il libro?
Il libro è diviso in 33 parti, una per ogni tappa del Camino Francés. Ad ogni stazione un titolo, per un viaggio di 800 e più km che dalla catena dei Pirenei arriva all’oceano.
Non potevo che scrivere in versi. Quel percuotere il terreno coi passi era un respiro interiore che doveva trovare la sua voce. L’intento era di scrivere qualcosa sul Cammino ma anche di superarlo andando oltre le apparenze, sondando la parte sottile e interiore di ogni vissuto. Dal punto di vista stilistico c’è una circolarità del narrato che si apre e si chiude di continuo e che in sé contiene e prosegue ciò che lo precede.
Il titolo è venuto da sé. La direzione in cui vanno tutti i camminanti è l’ovest. Ogni mattino, quando ancora è buio, un popolo di viandanti si mette in moto verso il mare e tu ne sei parte. Una sensazione da brividi. E quando sei stanco è questa forza che impregna l’aria a trascinarti. I testi sono rimasti quasi dieci anni a stagionare. Un tipico caso di manoscritto chiuso nel cassetto. E quando li ho tirati fuori ho provato una grande emozione e nostalgia nel rileggerli.
Quali sono stati gli eventi o le storie che l’hanno ispirata a scriverlo?
Anzitutto l’attraversamento a piedi di territori diversi: campagna, boschi, città, villaggi e lingua che cambia man mano che si procede da est a ovest. Poi, la conoscenza di persone che sembravano uscite da una storia più grande del qui e ora che stavo vivendo. Incontri al di là delle nostre diverse lingue, religioni e visioni del mondo. I pellegrini costituiscono un mondo composito e sfaccettato e ciascuno ha un proprio motivo per trovarsi in cammino. Ciascuno è una storia che merita di essere raccontata. Io che coltivo l’interesse per l’autobiografia ho trovato un mare di stimoli che potrebbero costituire lo schema di un romanzo. Ogni esistenza è una trama con picchi di alti e bassi, rotture e svolte che risignificano continuamente la vita. Nel libro non compaiono tutti i loro nomi, ma i loro volti e le loro storie sono lì dentro, discreti, custoditi in ogni pagina.
Un fatto curioso e per me rilevante è che verso la fine del Cammino, guardandomi allo specchio, vedevo una forte somiglianza con mio padre che, tra l’altro, si chiama Giacomo (Santiago si traduce letteralmente “San Giacomo”, ndr). Ironia della sorte: ora che non c’è più sento il desiderio di dirglielo.
I luoghi del libro sono necessariamente quelli reali e riconoscibili delle varie tappe immutate da chissà quanto tempo. Ogni giorno segnavo su un taccuino luoghi, storie, avvenimenti e persone incontrate e, a sera, inviavo a mia moglie un sms (era un’altra epoca) con la sintesi della giornata.
Tornato a casa ho ripreso con gradualità la routine quotidiana e mi sono organizzato per mitigare la nostalgia dell’erranza. Ho riaperto il mio taccuino, l’ho confrontato con quello su cui mia moglie aveva trascritto tutti i miei sms e mi sono detto che non mi sarei più fermato, che avrei continuato a camminare. Mettersi a scrivere con questi presupposti è stato un processo naturale.
Infine, e non ultimo, nel libro c’è il mio grande amore per la Spagna, per la sua storia, la sua lingua e la sua vitalità. Un luogo dove sentirsi a casa. Mi tornano spesso alla mente le comunità spagnole in cui mi sono imbattuto quando ero in Svizzera, la Bodega di Zurigo dove andavo a mangiare il pulpo a la gallega.
“La volontà dell’ovest” non è il suo primo libro, come nasce la sua passione per la scrittura?
Questo libro segue, dopo vent’anni, “La taverna di Brest”. Non sono però stati anni di vuoto. In questo ventennio mi sono dedicato a lavori teatrali con gruppi di ricerca, performance e produzioni di carattere sociale, ma alla fine la poesia ha chiamato dal profondo. Ultimamente ho conosciuto Christoph Ferber, un traduttore svizzero che si è appassionato alla mia produzione poetica. Ha anche tradotto in tedesco alcune parti de “La volontà dell’ovest”. In certi punti la versione auf Deutsch è meglio della versione italiana, me ne sono reso conto a Zurigo durante una serata di lettura bilingue di alcuni passi. Ne sono rimasto fortemente impressionato.
Scrivo da sempre. In questo rivedo mio padre che prendeva appunti su ogni cosa che lo interessava: discorsi, notizie, telegiornali. Note per trattenere il senso delle cose, rileggerle a sé e agli altri, tramandarle. Tra le sue carte ho trovato l’inizio di una autobiografia datata 1959, l’anno della mia nascita. Linguaggio semplice, lineare, l’avvio di una storia. Ecco, scrivere è proprio questo prendersi tempo per sé per, eventualmente, consegnarlo ad altri.
Degli anni svizzeri ricordo le recensioni che scrivevo per Agorà e un libretto scritto con Claudio Conte, pittore italo-svizzero con cui ho avuto una corrispondenza formidabile, un lungo sodalizio artistico di cui sento ancora la mancanza. “Figure che non corrono”, è stato finanziato con la vendita di un suo quadro. Eravamo proprio bohemiennes, poveri ma felici. Nel frattempo ho pubblicato un libro di racconti e alcuni libri di poesia.
In Italia ho collaborato con riviste cartacee come “Doc(s)”, “Tam Tam”, “Bloc notes” e riviste digitali come “Alleo” e “Nulla dies sine linea”. “La taverna di Brest”, pubblicata del 2005, è un’opera poetica che ha avuto una riduzione teatrale e performativa e di cui è stata realizzata una versione illustrata da Alberto Valente.
Per concludere, per me la scrittura è un viaggio non meno prezioso di un cammino. Un percorso dentro di sé e dentro il mondo in cui viviamo. L’interferenza è reciproca: quando parliamo di noi parliamo del mondo e quando parliamo del mondo parliamo di noi. La passione per la scrittura è quell’azione interiore che ti tiene all’altezza delle cose. E ogni giorno mi dico che il viaggio è ancora lungo.
Redazione La Pagina