Lo guardai fisso nel reflusso delle emozioni, aveva un’aria malinconica come un comico che non fa ridere, i capelli disordinati come le
foglie degli alberi rapiti dal vento. Non sembrava di certo il capitano di un esercito temuto e rispettato. Si mise a dondolare come il pendolo di un orologio, anche se i suoi tempi sembravano un’eco di cannoni. Era lì, a dondolare una vita lasciata cadere nel mare, consapevole che la prossima onda sarebbe stata l’ultima.
Non seppi resistere e corsi ad afferrargli il braccio. Lui non si girò di colpo, come lecito voleva la circostanza, ma rimase a dondolare.
Poi nel silenzio dell’attesa alzò la mano verso il cielo e indicò una nuvola.
“Una piccola nuvola affronta il cielo, solo così si è liberi di essere ciò che la vita ci ha resi!”
“E lei ha scoperto che cos’è nella vita?” Chiesi.
“Sono la speranza”.
“Non sembra per niente la speranza…”
“Perché, sa dirmi cosa significa per lei la speranza?” mi interrogò.
“A mio parere, la speranza non barcolla sulla riva del mare, aspettando un’onda che si porti via tutto. La speranza è il faro che indica la riva ai pescatori dopo una tempesta vinta con fatica”.
Diedi questa mia spiegazione e il risultato fu un pizzico di sorriso ironico, uno di quelli che arriva dritto al cuore e percorre le vene, portando la notizia di cose non vere.
Poi d’un tratto fermò la corsa contro il tempo e, con un’aria di rabbia e una voce media alta, espresse tutto ciò che un uomo nasconde al mondo: “Il faro? I pescatori? La tempesta? Queste sono storie di libri scritti da persone che non sanno che cos’è il mare. Sono anni che c’è quel faro e il mare ha cambiato carattere mille volte al giorno. Sono le onde l’unica speranza che conosco, le onde alte. Sì! Solo quelle possono restituire il corpo di mio figlio!”.
“Suo figlio?”
“Sì! Mio figlio…” e si lasciò scivolare dalle labbra ciò che solo una giostra può far sparire con un urlo di paura: “Era una bella giornata di settembre, nell’aria gli odori erano forti e intensi come i fiori appena raccolti. Tutto sembrava allegro. Tutto, tranne il mare, sì! Tranne lui che era inadatto al mondo che lo circondava. Lo pregai di non andare. Mio figlio era testardo e amava uscire in barca a vela e sprofondare nel suolo marino, dove si cela un altro mondo. Lui non vedeva mai il mare calmo o mosso, lui ascoltava solo il vento e quel mondo che lo tiene stretto con sé da due anni. Cercai quel giorno di insistere più del dovuto, ma non servì a nulla”. Si fermò, sospirò. Poi riprese: “Le ultime parole che mi disse furono: ‘Vedi papà, guarda quella piccola nuvola, ha il coraggio di attraversare il cielo da sola perché vuole essere libera di essere ciò che la vita l’ha resa: una nuvola!’”.
Gli lasciai il braccio appena finì di parlare, non c’era più bisogno di tenerlo stretto. Non era lì per morire, non poteva farlo, almeno in quel momento.
“La barca l’hanno ritrovata?”, chiesi dopo alcuni minuti di silenzio, che trascorrevano scoordinati nei miei pensieri.
“Dopo una settimana. Perché il mare non ha dato tregua per sette giorni”. Rispose l’uomo che in qualche modo aveva creato un legame con me.
Poi inaspettatamente si girò.
Aveva gli occhi così profondi che era impossibile decifrarli e le rughe del viso sembravano strade percorse troppo in fretta.
“Come si chiama?”, mi chiese il capitano.
“Mi chiamo Hans. E lei?”
“Friedrich”.
“E suo figlio come si chiama?”
Usai un tempo presente per non creare scompigli nella sua speranza.
“Johann. Lo aveva scelto sua madre in memoria del musicista Johann Sebastian Bach”.
Ad un tratto il nostro colloquio si interruppe dal suono delle camionette tedesche. Un militare scese dal veicolo e, dopo aver fatto il saluto inneggiando al Führer, riferì al capitano di seguirlo.
Erano i primi mesi del 1940, io non ero tedesco, anche se parlavo il tedesco correttamente. Non parlavo solo quella lingua. Io ero una giovane spia del KGB, assoldato dall’Unione Sovietica per indagare sulla vita del capitano Friedrich e scoprire eventuali manovre contro la mia Nazione.