Ingrid Bergman, Kim Novak, Lana Turner, Audrey Hepburn, Anna Magnani. Cinque icone, cinque bellezze diverse, cinque caratteri differenti e diversi temperamenti artistici, con un denominatore comune: Fernanda Gattinoni.
La stilista maestra di rigore e semplicità che per loro, negli anni ‘50-’60, ideò abiti sublimi, di scena e non, immortalati nelle pellicole cult della storia del cinema. Ventuno, scelti tra i 400 degli archivi della Maison, sono arrivati a Parigi, all’Istituto italiano di cultura, per una mostra intitolata Moda e stelle ai tempi della Hollywood sul Tevere, gli anni in cui molti set cinematografici furono trasferiti a Cinecittà con il conseguente arrivo a Roma di stuoli di star, contese dalle sartorie più famose dell’epoca.
La mostra, organizzata dalla direttrice dell’Istituto Rossana Rummo, e curata da Sofia Gnoli, è un affascinante viaggio nella storia del dopoguerra, nei miti della settima arte come Guerra e pace: l’abito da ballo stile impero di Natasha è esposto in uno dei saloni assieme ad altri due indossati nel film da Audrey Hepburn.
Una delle clienti più puntigliose e difficili, ricorda Stefano Dominella, presidente e memoria storica della Maison dove è di casa dal 1981. “Era troppo perfettina, a me i perfettini non piacciono”, diceva Madame. “Ma alta e snella, ogni abito su di lei diventava luminoso come un gioiello”. Era invece piccolina Lana Turner, che la stilista “conquistò con un bustier che ne metteva in risalto il seno e la vita”, da pin up. Per lei Madame Gattinoni disegnò abiti con motivi di sapiente drappeggio che spiccano come corolle di fiori sulle pareti chiare che fanno da scrigno ai modelli, preziosi quanto semplici. Perché per Madame “un vestito non è chic se la gente si volta a guardarlo”. Irene Brin scrisse: Fernanda vestì in flanella grigia la maharani di Palampour, negandole gli abituali drappeggi dorati, e avvolse Evita Peron in semplici sete lombarde, rifiutandole l’abito rosa con stola di visone in tinta che avrebbe voluto. Perchè Madame, che era anche un po’ snob, aveva le idee chiare, se una cosa non le piaceva non la faceva e rifiutò anche di sfilare a Palazzo Pitti “dove andavano tutte”, e di lavorare con Coco Chanel: incontrandola rimase sconvolta dalle parolacce e dalle dite gialle di nicotina. Così come non le piacque Elizabeth Taylor, “perché impestava il camerino di whisky”.
Tra le cinque “icone”, il rapporto più intenso fu con Ingrid Bergman e Anna Magnani.
Per la Bergman disegnò il corredo personale e abiti di scena per ‘Stromboli’, ‘Europa 51’, ‘Viaggio in Italia’ e ‘Fiore di Cactus’; per la Magnani che vestì in ‘Siamo donne’ di Visconti, la Gattinoni divenne la sarta prediletta.
“Non le importava nulla di vestirsi, voleva solo piccoli abiti neri”, come i quattro modelli esposti in una sorta di camerino di prova a lei riservato.
E la più vamp dei cinque miti, Kim Novak, ha il posto d’onore: l’abito nero in raso a sirena con scollo all’americana in pizzo macramè e un grande fiocco sul dietro, troneggia al centro della mostra che dopo Parigi andrà a Roma, Berlino e Beirut.
Articolo precedente
Prossimo articolo
Ti potrebbe interessare anche...
- Commenti
- Commenti su facebook