“Quando si parla di Stato, si intende non solo il governo pro tempore, ma anche funzionari, prefetti, magistrati, forze dell’ordine. Non ho mai parlato di trattativa tra mafia e governo. Chi intende in questo modo deforma la realtà “. L’ex guardasigilli Claudio Martelli, ripropone così l’episodio del 1992 – di cui ha parlato ad ‘Annozero’ – fra il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno e la dottoressa Liliana Ferraro, all’epoca direttore dell’ufficio Affari Penali del Ministero della Giustizia e collaboratrice del giudice Falcone.
Secondo quanto riferito da Martelli, Ferraro ricevette una visita dal capitano dei carabinieri De Donno che le parlò della disponibilità di Vito Ciancimino a collaborare a fronte di garanzie politiche.
L’incontro si concluse con l’invito rivolto dalla Ferraro a De Donno di parlarne con il giudice Borsellino, incaricato delle indagini. Successivamente – sempre secondo quanto emerso durante Annozero – Borsellino sarebbe stato avvertito direttamente da Ferraro delle disponibilità di Ciancimino. “Non è la prima volta che parlo di questo episodio – dice Martelli – in passato ne feci già cenno in due distinte interviste a quotidiani”.
È assai probabile che la Ferraro abbia rivelato ogni cosa il 25 giugno, lo stesso giorno, forse nella stessa circostanza, in cui il colonnello dei Ros, Mario Mori, incontrò Paolo Borsellino, ricevendo probabilmente notizie su ciò che stava avvenendo. I colleghi di Borsellino hanno riferito in passato quanto fosse turbato quel giorno, uno stato d’animo del resto noto a tutti dal momento che nel corso di un suo intervento – era il trigesimo della morte di Falcone ed era in corso una manifestazione per ricordarlo alla Biblioteca comunale di Palermo – Borsellino disse che ormai la sua sorte era segnata e che sarebbe stato ucciso.
L’ex Guardasigilli tiene, però, a precisare che se da una parte ci sono stati magistrati, come Falcone e Borsellino, “veri eroi di questo Stato”, dall’altra esistono anche “funzionari sleali o dirigenti che hanno compiuto veri e propri abusi, fosse anche in buona fede”. E spiega: “Il Ros non aveva alcun titolo per intavolare un’azione di persuasione. Insomma, nessun titolo per interloquire in quel modo”. E questo, argomenta ancora Martelli, perché era stata costituita la Direzione investigativa Antimafia (Dia), “un servizio speciale integrato da vecchi servizi dei vari corpi di polizia. Spettava, ovviamente, alla Dia un compito del genere e non al Ros”.
Martelli ritiene che nell’iniziativa dell’allora vicecomandante del Ros dei carabinieri Mario Mori e del capitano De Donno abbia giocato un ruolo una sorta di forma di presunzione o addirittura arroganza del tipo “ora ve lo facciamo vedere noi come si combatte la mafia”.
Martelli ribadisce che “chi parla di trattativa tra Stato, inteso come governo, e mafia deforma la realtà. Stato sono anche quei prefetti, forze dell’ordine e quant’altro che non sorvegliarono la casa della madre del giudice Borsellino.
E, dunque, si tratta di una responsabilità ancora più grave di quella che si assunsero Mori e De Donno”.
Come il giudice Paolo Borsellino, anche Antonio Di Pietro, sarebbe stato avvertito dai carabinieri del Ros del rischio di essere una delle vittime predestinate dalla mafia, come pubblicato dalla testata “Il Secolo XIX”. Stando a quanto scrive il quotidiano, a Palermo, tra gli atti custoditi negli uffici dei carabinieri del Ros, ci sono ancora tutte le copie di quei documenti relativi alle segnalazioni fatte al giudice Borsellino.
Secondo il giornale, l’informativa del Ros sfruttava i canali delle indagini sul narcotraffico: gli infiltrati nella banda erano venuti a sapere che alcune famiglie emergenti di Cosa Nostra volevano uccidere i giudici Borsellino a Palermo e Di Pietro a Milano.
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