Il ragazzo. La scuola. La maestra. L’emigrazione
La Svizzera, chissà?, un lavoro sicuro, un po’ di guadagno e poi, il ritorno. Compresi più tardi il perché del mancato ritorno. Storie di emigrati. La baracca, la lingua che non capisci: fredda, metallica, l’incomprensione, la freddezza, l’isolamento e spesso il vuoto e l’astio che ti si crea attorno. Auslander? Sì! Straniero. È così che inizia lo sconosciuto dramma (sconosciuto a chi?) di migliaia di giovani, uomini e donne, partiti dal profondo sud e dalle zone più povere e arretrate del nord, alla ricerca di un lavoro, di una garanzia, per sé e per la propria famiglia, di un domani migliore. Si ricomincia da capo. Spesso alle spalle anni di lotta per la terra, o nelle fabbriche contro i biechi padroncini di allora.
Fra di loro, tra queste facce scavate dalla fatica e dalla sconfitta, braccianti, sindacalisti delle lotte per la terra che hanno combattuto e perduto. Già, si ricomincia, nuova vita, nuove abitudini, nuovi incontri, giornate estenuanti, il non trovarsi assieme ai soliti compagni di lavoro nei campi o nella caligine del capannone, altri dialetti, una generosa miscela di gente che non si è rassegnata: siciliani, calabresi, pugliesi, sardi, abruzzesi, veneti, tutti accomunati da un unico destino. Il coabitare, il vivere, il cercare di darsi coraggio, di capire il mondo che li ha ospitati. E in più spesso, troppo spesso, il sangue versato.
Sconosciuti eroi dell’Italia moderna, del boom e del radioso futuro. Budelli scavati con la tenace e rabbiosa violenza di chi ha sempre versato lacrime e sudore, muri di cemento che arrestano corsi d’acqua, gallerie, strade, viadotti avveniristici, il tutto per un paese che li utilizza come braccia da lavoro e con essi si trasforma. Grazie, Max Frisch, per aver loro dedicato la storica frase. Quale mai vita è questa? Una giornata uguale all’altra, intercalate dal breve riposo domenicale senza sapere ove andare, con chi parlare, discutere, leggere per i pochi eruditi, pensare. Rimane solo lo struggente ricordo di una vita passata, sembra, invano. Poi, piano piano nasce la fiammella, un segno disperanza. Ti accorgi, parlando con l’amico, il compagno di lavoro, che hai portato dall’Italia qualcosa che non si distrugge. Che ti rode l’animo.
Ti fa sentire diverso, forse, direi sicuramente, migliore. Trasmetti esperienze, momenti di vita e scopri…ma guarda un po’, destini comuni. Fai attenzione, non parlare forte, qualcuno ci ascolta. Politica? No, non se ne può fare e parlare. Già, il paese è tranquillo. Scioperi, lotte, salari, partecipazione, dibattito, confronto:” Fremden Mainungen”, idee straniere. Rimani perplesso. Ti rodono i ricordi, ripensi, rispunta la volontà, la voglia il desiderio di continuare. Da ciò nasce il seme, l’embrione del movimento associativo e democratico all’estero. Da quell’orgoglio di possedere un patrimonio che ti porta a lottare per te e per gli altri. Racconti da leggenda mai scritti, tramandati ai figli, ai nipoti perché apprendessero come è stata dura la vita nelle terre oltre le alpi. Sembrano semplici vicende. Sono le limpide pagine scritte dai lavoratori italiani senza diritti nella terra degli elvezi. Molti di loro non sono più tra noi. Chi è rientrato al villaggio natio, chi fu espulso per attività politica, (e nella sola Svizzera furono centinaia). Chi ci ha lasciato per sempre. Oggi, quando discutiamo dei problemi integrativi dei nostri giovani e delle nostre ragazze, dall’avvenire dei figli dei nostri connazionali, non possiamo dimenticare quel passato. Quelli che hanno combattuto per noi, il loro impegno, l’appassionato contributo di ognuno, gli ideali per i quali si sono spesi.
Nel mentre parliamo della futura Europa, che vorremmo più unita e solidale, mi sovviene l’insegnamento di una adorabile, minuta, straordinaria vecchietta. Spenghler, il suo nome. Calata forse in Valtellina al seguito dei lanzichenecchi, antenati suoi. Era la mia maestra di scuola. Quanto a te devo, cara maestra della mia giovinezza. Tu mi dicesti, un giorno qualunque del lontano mille novecento quarantotto, scoprendomi esterrefatto e geloso nell’osservare un appetitoso dolce di una compagna di scuola, figlia di ricchi locali: quando vedi qualcuno che ha molto più di te, non odiarlo. Fa in modo che ognuno possa un giorno godere della stessa fortuna.
Non capii, allora. Ma cercai, più tardi, di essere il più vicino possibile a quelle poche, ma tanto nobili parole. E così fu.