Il dispositivo è costituito da un paio di occhiali dotati di una telecamera che invia le informazioni visive a un piccolo computer collegato ad un chip impiantato sulla retina
Ci sono delle malattie molto serie e ci sono delle malattie molto rare. Il guaio è quando le malattie sono sia serie che rare, per la semplice ragione che è difficile gestirle, sia per eccezionalità dell’evento, sia perché occorrono mezzi, apparecchiature e competenze. Una di queste malattie è la retinite pigmentosa, una malattia degenerativa che colpisce l’occhio e che può portare alla cecità totale che, come ognuno può immaginare, comporta sofferenze, disagi e enormi problemi. In Italia già qualche anno fa è stato messo a punto il sistema di protesi retiniche “Second Sight”, che permette alle persone colpite – circa 15 mila in Italia – e che non vedono più, di avere in qualche modo la possibilità di riconoscere forme e contorni, che non è il massimo della vista, ma è pur sempre qualcosa che aiuta e che soprattutto può essere migliorato. Il tutto grazie alla scienza e alla tecnologia.
Vediamo che cos’è la retinite pigmentosa e che cosa provoca esattamente. A dircelo è il professor Stanislao Rizzo, direttore del reparto di Chirurgia Oftalmina del’Azienda Ospedliero-Universitaria di Pisa, il quale è stato il primo al mondo ad aver effettuato otto impianti di retina artificiale. Dice il professor Rizzo: “Non necessariamente la retinite pigmentosa porta alla perdita della vista. La malattia, di solito, colpisce entrambi gli occhi in modo asimmetrico e provoca una perdita progressiva della visione notturna e del campo visivo periferico. Col passare del tempo si possono registrare anche una diminuzione visiva, fotofobia e cecità. La patologia è caratterizzata, infatti, da un decorso progressivo che può condurre, in un arco di tempo variabile, anche alla completa cecità, ma solo una ridotta percentuale di pazienti sviluppa questa fase più acuta con conseguente perdita completa della funzione visiva”.
Per vedere ai ciechi viene applicata una specie di protesi. Ecco le parole del professor Rizzo: “Il dispositivo è costituito da un paio di occhiali dotati di una telecamera che invia le informazioni visive a un piccolo computer (che il paziente deve portare con sé) collegato a un chip dotato di 60 elettrodi impiantato sulla retina durante l’intervento chirurgico. Grazie a questo dispositivo quasi interamente esterno, è possibile oggi restituire funzionalità visiva a persone colpite da retinite pigmentosa in fase avanzata”.
Dopo l’operazione, il paziente non recupera immediatamente la vista, ma deve iniziare un percorso di riabilitazione. Migliora solo mese dopo mese. Dunque, è un periodo impegnativo, anche perché non si tratta di un recupero della vista come noi l’intendiamo, ma solo della “capacità visiva”.
Aggiunge il professor Rizzo: “I chip sulla superficie dell’impianto sono stimolati progressivamente, in modo che il paziente abbia il tempo e la possibilità di imparare ad elaborare uno stimolo visivo dopo anni di inattività. Inoltre, il sistema viene personalizzato, impostato e aggiornato in base alle esigenze del paziente che col tempo impara anche a configurare il piccolo computer collegato al chip”.
Ci sono, però, da fare delle precisazioni. La protesi retinica non può essere impiantata a tutti, ad esempio non a quelli che sono nati ciechi. Poi, bisogna essere in buona salute, perché si deve poter sopportare un intervento in anestesia totale che dura non meno di quattro ore e comunque bisogna avere non meno di 25 anni. Infine, siccome il periodo riabilitativo è lungo e complesso, bisogna essere motivati e determinati a raggiungere risultati.
Abbiamo accennato al fatto che si acquista non la vista come normalmente s’intende, ma la “capacità visiva”. La protesi è composta da 60 elettrodi che permettono di raggiungere una certa autonomia a pazienti che prima non vedevano nulla da tutti e due gli occhi. Ecco le conclusioni del professor Rizzo: “Il paziente può vedere naturalmente la differenza tra giorno e notte, la forma degli oggetti, la sagoma di una persona, di una porta. Questo tipo di dispositivo grazie alla ricerca è in continua evoluzione. Per il 2016 è prevista una protesi con 240 elettrodi, cioè di una densità quattro volte migliore di quella attuale e questo permetterà di estendere il campo di applicazione anche a pazienti che hanno una vista migliore rispetto a colore che in questo momento possono sottoporsi all’intervento”.