Un mondo instabile tra progresso e abbandono
Un volo un po’ così. La giornata grigia, uggiosa, cupa come lo può essere un primo mattino d’inverno nei pressi della città sul Limmat, non invita all’ottimismo per il proseguo del viaggio. Già il non aver ammirato le scintillanti luci delle passate festività stava a dirti che le feste, e il breve riposo, erano un mesto ricordo di un recente passato. È ripreso l’impegno in un parlamento avvolto da un’atmosfera di cupo pessimismo. La provvisorietà è, da tempo, il segno, indelebile, del palazzo. Si naviga a vista, o se preferite, si vola, come è successo a me in questa occasione, nel mezzo di una tempesta portata forse dal vento del ghibli proveniente dal ventre del Sahara. L’Airbus dell’Alitalia che, dopo lo scalo romano, mi porta verso Catania, traballa e scricchiola come il kayak che sfida le rapide dell’Adda nell’alta Valtellina. Ho poco amore per quei mostri volanti dal giorno in cui la carcassa su cui viaggiavo nel volo tra Kufra e Bengasi, planò tra le dune del deserto libico con i rotori acciecati dalla sabbia colore del fuoco.
In quei momenti di puro terrore il tuo corpo è come sospeso in un vuoto siderale in cui scorrono immagini su scampi di vita sino allora vissuta. L’eternità racchiusa nel tempo, pur breve, in cui quel maledetto volteggia cercando un abbraccio non rude alla duna. Mi salvai, ci salvammo e da allora ho odiato quel genio, o forse l’immenso Leonardo, che indicò all’uomo la via per librarsi nel cielo nel segno di Icaro. È improvviso, augurante, l’annuncio. Si scende e nulla mi appare del cocuzzolo fumante dell’Etna avvolto da una cappa di nembi amici che forse nascondono il sonno della belva infernale, per poi eruttare, ripreso l’antico vigore, la rabbia dei demoni antichi. Mi attende Carmelo Vaccaro, concittadino di Palagonia, ginevrino emigrato.
Ha organizzato un incontro per parlare degli italiani e siciliani nel mondo. Di come quella razza umana antica se ne andò in cerca di una terra e un approdo sicuro. Mi accoglie tra amici di cui serberò un vero, sincero ricordo. Viaggiamo tra filari dal colore dell’ oro accecante. Un bene che la natura ci ha dato. E noi, che cerchiamo ogni dove di estinguere, costruendo orrendi castelli fumanti per inseguire il sogno di una nuova babele. È Salvatore Motta a dirmi perché lui è rimasto nella terra dei padri a produrre l’agrume dalla polpa succosa, che è come dire: lo afferri, lo spremi è già ti senti una gioia interiore e un assoluto vigore. Mi parla di come un suolo a cui Dio ha donato una parte di se non possa cadere nell’oblio di un mondo che ha smarrito il senso del bene comune. Non chiede assistenza ma acume. Perché in tutta Europa si sappia che il tarocco, così e chiamato l’arancio del luogo, proviene da una terra laggiù in quell’isola eretta per unire i continenti del nostro mare. Acume perché i popoli dell’Unione possano godere del frutto solatio che la natura ha donato.
Palagonia, una cittadina di gente povera e orgogliosa. Tanti se ne sono andati. Lo ricorda, nel suo discorso di saluto, Valerio Marletta, il giovane sindaco accorso a portare il saluto all’assemblea serale. Ricorda una realtà dai tratti di una nuova povertà con il sapore di antico. Di una situazione intollerabile che impone una svolta rigeneratrice per ridare speranza ai suoi cittadini, ai tanti giovani senza opportunità e lavoro. È Salvino Scalia, avvocato impegnato e segretario cittadino del partito democratico, a tracciare la strada di un possibile sviluppo che parta dalla tradizione storica e culturale della terra dei mori. Parla con la passione dei dirigenti politici che non hanno smarrito la funzione di promozione umana e civile in cui sono impegnati. Non vi è rassegnazione, abbandono. Solo consapevolezza delle difficoltà della sfida. Carmelo è commosso, l’iniziativa, a cui tanto teneva , ha avuto successo. Davanti ad un folto pubblico – tanti i giovani presenti – esprimo le idee della politica per un nuovo e più benevolo avvio.
Parlo con la sincerità e la passione di sempre. Della solidarietà che si deve ai disperati che approdano alle nostre terre. Di una nuova moralità per riconquistare la fiducia dei cittadini alla politica e all’impegno per il bene della Sicilia e della nostra Patria. Spero di aver lasciato un buon ricordo della pur breve visita. Di ritorno all’aeroporto per prendere il volo mattutino per Roma, ripenso alle giornate trascorse. Rivedo i villaggi, le cose, i volti scavati, dall’età e dal duro lavoro dei campi, dei vecchi contadini nel lento struscio, avanti e indietro, di piazza Garibaldi. Cari amici di Palagonia, Caltagirone, Mineo con il CARA, il lager dei quattromila disperati venuti dal mare, arrivederci, con l’augurio di un avvenire migliore.