Mi è pervenuta una lettera. La conserverò. La scrivente e lettrice del settimanale “ la pagina” ha inteso inviarla al giornale ben sapendo che, in un modo o nell’altro, avrebbe trovato la via di casa mia. Così è stato. Ringrazio la redazione per la sollecitudine e la discrezionalità. Non è stata aperta.
Un’antica abitudine non più rispettata. Se qualche volta succede, è bene prenderne atto e ringraziare gli autori. È scritta a mano. Si usava, un tempo. Più o meno sino a cinquanta anni fa. L’Olivetti, nel segno di Eco, non era affatto una novità. Tuttavia, escluse le lettere professionali, quando si trattava di rapporti personali – d’affetto, d’amore, di particolare ringraziamento o partecipazione affettiva – si prendeva carta, possibilmente rigata, penna o matita, e ci si accingeva, talvolta colpiti da un leggero tremolio della mano, a compiere l’atto. Ricordo mio padre appena tornato dal suo soggiorno in Australia. Letta la missiva pervenuta dal Queensland ove aveva lavorato al taglio e alla raccolta della canna da zucchero, chiamava Nilde perché gli fosse consegnata quella sdrucita cartellina ove si tenevano – eravamo nei primi anni cinquanta – quei pochi fogli di colore dal bianco al giallognolo.
L’ appuntire la matita con la roncola dei contadini era sempre una impresa. Bisognava stare attenti a non sciupare troppa punta. Scriveva, il babbo. Alcune frasi, religiosamente in stampatello, in inglese un po’ maccheronico. Ho sempre avuto il sospetto che in quell’inglese stava il succo del discorso.
Lascio al lettore la fantasia del caso. Grazie, cara lettrice, di cui, per rispetto, non rendo noto il contenuto, anche per gli accenni, troppo buoni, alla mia personale esperienza politica e umana. Lo spunto fu dato dal contenuto della rubrica del 7 gennaio scorso “ La vita racchiusa in un rapido zoom.” Il racconto di un momento drammatico della mia vita. Ognuno lo vive dai tempi dei tempi, e lo racconta, se vuole, a modo suo. La storia a cui fa riferimento la lettera pervenutami ha inizio nei primi anni settanta. Ero appena sbarcato a Zurigo da Bengasi, via Roma, ove avevo vissuto, in diretta, l’avvento della rivoluzione gheddafiana. Sembrava, ai più, la breve avventura dei capitani coraggiosi. È durata mezzo secolo. E senza le sciagurate decisioni dell’allora presidente Sarkozy, non si sa sino a quando.
Eravamo nel pieno della battaglia referendaria xenofoba di James Schwarzenbach. Conobbi, alla casa d’Italia, uno di quei personaggi che attirano, da subito, la tua attenzione. Affabile, dai modi accurati e gentili, la parlata lenta e misurata, il marchio delle valli a sud del Gottardo, la limpidezza dei concetti sui quali a nessuno era possibile rispondere con il classico “ non ho capito.” Parlava da cittadino di una repubblica Cisalpina, orgoglioso e cosciente di rappresentare una straordinaria tradizione storica e culturale su cui si sarebbero infrante le perverse teorie di Schwarzenbach. Ha fatto più lui per incoraggiare i processi integrativi dei nostri cittadini che tanti della comunità italiana. Noi chiamavamo al voto politico per tornare. Lui si appellava a noi per restare e contribuire a costruire una Svizzera progredita, solidale e moderna. Fummo, da subito, amici. Una questione di pelle, si direbbe. Nell’ora del successo lo invitai alla Volkshaus in occasione della straordinaria giornata di popolo con il segretario Alessandro Natta.
Parlò da compagno e amico.
Ricevette un’ accoglienza trionfale. Fu lui, nel 2006, nella sua Lugano, a lanciare la mia candidatura al parlamento repubblicano. Usò espressioni che serbo nel profondo del cuore. Ero lontano, in non so in quale sciagurato paese dell’Asia, come delegato del Consiglio d’Europa. Lo appresi al ritorno. Dario Robbiani non è più. E fu uno zoom: improvviso, lo scorrere della pellicola impazzita che violenta l’immagine perché non appaia l’ ultima meta. In un particolare momento si pensò a lui per l’elezione a Consigliere Federale. Mai un’ elezione alla più alta carica della Confederazione sarebbe stata più meritata. Per la sua persona, per il Ticino, per la comunità italiana, al cui successo aveva dedicato parte importante del suo appassionato impegno politico e morale. Dario Robbiani, un amico. Lo accompagnava, talvolta, Sonja, una brunetta dallo sguardo arguto. È lei, l’autrice dello scritto. Anch’ ella avrà avuto, da moglie e compagna, tanta pazienza nel seguire l’ impervio percorso politico del marito. La conobbi e lessi, settimanalmente, su un periodico dell’epoca. Dario e Sonja. Dio li fa e poi li accompagna.