Enrico Letta attribuisce lo sforamento del 3% del rapporto deficit/Pil all’instabilità politica creata dai partiti che sostengono il governo a causa della loro irresponsabilità e dei loro problemi interni
Stanno emergendo tensioni serie all’interno del governo Letta, create in piccola parte dalla constatazione che dopo essere usciti faticosamente dalla zona di osservazione dell’Unione europea per aver superato l’esame dei conti sotto il 3% del rapporto deficit/Pil, ora, dopo gli sforzi fatti, si è superato di nuovo questa soglia, seppure di poco (3,1%). Il che vuol dire dover a tutti i costi affrontare il problema se non si vuole incorrere in una procedura di trasgressione da parte dell’Europa. E’ qui che cominciano gli ostacoli, di tipo politico e di tipo finanziario. Riportare il bilancio al 3% o sotto il 3% significa trovare subito un miliardo e 600 milioni. La misura che potrebbe far superare l’ostacolo è l’aumento dell’Iva dal 21 al 22%, che vuol dire far pagare più tasse agli italiani e soprattutto innescare un meccanismo economico-finanziario di tipo recessivo. Ed è qui che entra in gioco la politica e in modo particolare i partiti.
L’aumento dell’Iva è osteggiato dai partiti, per motivi elettorali ma anche per motivi politico-programmatici. Il Pdl ha ritrovato la sua linea di condotta, dopo gli sconvolgimenti degli ultimi tempi legati alla decadenza di Berlusconi, sul sostegno al governo ma sul ruolo di “sentinella antitasse “, secondo l’espressione di Alfano, segretario del Pdl e ministro degli Interni, che ha aggiunto: “Pensiamo che un miliardo nelle casse dello Stato sia possibile trovarlo. Lavoreremo per non aumentarla” (l’Iva, ndr). Il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, è stato molto drastico: “Se Saccomanni non blocca l’aumento dell’Iva, non c’è più governo”. Letta, insomma, si trova sotto i diktat del Pdl. Ma anche il Pd è stato oltremodo deciso. Il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, ha detto la stessa cosa di Alfano: “Noi non vogliamo l’aumento dell’Iva che colpisce i soggetti più deboli: per evitarlo sarebbe utile pagassero le fasce più ricche che possono pagare e che vivono nelle case più lussuose”. Il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, prima di Fassina aveva messo in guardia il governo: “Noi siamo contrari all’aumento dell’Iva”.
Queste dichiarazioni hanno profondamente irritato il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, il quale ha ricordato che si dimise da direttore generale della Banca d’Italia con l’assicurazione che lui avrebbe accettato l’incarico a condizione che potesse lavorare per il rigore dei conti. A suo giudizio, l’aumento dell’Iva è assolutamente necessario, perché con la situazione dei conti non c’è altro modo, sono esauriti tutte le possibili fonti di risparmio, specie dopo la concessione dei vari incentivi, del rifinanziamento della cassa integrazione e dello sblocco dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione. Saccomanni ha detto: “Gli impegni vanno rispettati, altrimenti non ci sto”. Gli impegni sono quelli nei confronti di Bruxelles, appunto non oltre il 3% del rapporto deficit/Pil, tanto più che il pareggio di bilancio è diventata una norma costituzionale, quindi chi parla di rinegoziare con Bruxelles dice, secondo il ministro, cose senza senso.
Ma le tensioni a cui è sottoposto il governo, dicevamo, vengono alimentate dalle tensioni che regnano nei partiti. In altra parte del giornale si parla di quelle provocate dal Pdl e che nascono al suo interno. Qui parliamo di quelle nel Pd, dalla cui assemblea sono usciti segnali di profondo disagio. L’oggetto del contendere è noto: il congresso, la data e le regole, ma soprattutto la lotta tra Renzi, che vuole essere eletto segretario e candidato premier e gli avversari che vogliono impedirglielo. La sfida tra Renzi e Cuperlo non è solo la sfida tra due persone, ma tra due concezioni di partito. Tutti e due vogliono innovare, ma l’uno cancellando la memoria storica del Pd, l’altro rafforzarla con una iniezione di sinistra negli ideali e nei programmi.
La Commissione del congresso, nella nottata di sabato, aveva chiuso l’accordo sulle nuove regole, tra cui la fine dell’automatismo segretario-candidato premier, con Epifani che aveva annunciato la data del congresso. Sembrava una vittoria di Renzi e invece a notte fonda l’accordo è saltato, sia per una questione di numero legale e di legittimità del voto, sia soprattutto perché l’asse Bersani-Franceschini cerca di ostacolare la corsa di Renzi spingendo in avanti la data del congresso. A meno che nel frattempo non intervengano delle novità, se salta l’accordo notturno resta valida la norma secondo cui il segretario del partito è anche candidato premier. Il che significa che l’asse Bersani-Franceschini mira a logorare Renzi rinviando il congresso e allontanando così la crisi di governo, essendo chiaro a tutti che la vittoria di Renzi equivale alla fine di Letta. Proprio Renzi, infatti, ha usato parole dure con Letta quando gli ha dato la colpa di non saper tenere il deficit sotto il 3%, accusandolo invece di dare la colpa a lui e a Berlusconi additati come responsabili dell’instabilità politica. Le tensioni sono talmente forti nel Pd che Antonio Politi sul Corriere si è chiesto se “il Pd è ancora al governo o all’opposizione” e attribuendo a Renzi l’idea di sbarazzarsi del vincolo del 3% con l’Europa, mettendo in imbarazzo il ministro Saccomanni che invece ha detto che solo pensarlo ci pone ai margini dell’Europa.