È clima di guerriglia urbana a Bangkok ormai da diversi giorni, con la determinazione dei militari che sta logorando la resistenza delle “camicie rosse’’, che ora – dopo 33 morti e oltre 230 feriti in tre giorni, per un totale rispettivamente di 63 e circa 1.300 dall’inizio della protesta – chiedono di fermare la violenza e tornare ai negoziati, magari con la mediazione dell’Onu.
La risposta del governo però è stata: “Arrendetevi’’. Anche nella notte tra sabato e domenica scorsa la situazione era tesa e a Bangkok riecheggiavano sporadici spari ed esplosioni. L’Hotel Dusit Thani, uno dei più lussuosi della capitale situato ai margini della zona calda, secondo un fotografo dell’agenzia Afp è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco e i clienti sono stati fatti scendere nei sotterranei.
Il sito ‘iReport’ della Cnn, dove chiunque può inviare video all’emittente, è stato intanto bloccato dalle autorità. All’esterno del bivacco dei “rossi’’, nelle stesse aree – Din Daeng e Rama IV – dove si sono verificati i peggiori scontri, militari e manifestanti sono entrati in contatto, quando gruppi di dimostranti hanno cercato di far avanzare le loro barricate di pneumatici, lanciando petardi e razzi artigianali verso le linee dell’esercito.
I militari non esitano a sparare non appena i dimostranti mostrano di volersi avvicinare. “Non vogliamo altri morti: chiediamo all’esercito di fermare le uccisioni’’, ha dichiarato Nattawut Saikua, uno dei leader.
Poco prima un altro capo, Jatuporn Prompan, aveva invocato un intervento del re, “la nostra unica speranza’’. Parole che rivelano la nuova posizione di debolezza dei fedeli dell’ex premier Thaksin Shinawatra, che una settimana fa erano a un passo dall’accettare elezioni anticipate ma hanno fatto saltare la proposta del premier Abhisit Vejjajiva con nuove richieste.
Con la situazione sul campo in sostanziale stallo, pur respingendo la richiesta di negoziato, le autorità cercano ora di prendere tempo stringendo anche finanziariamente il cerchio attorno alla protesta. Dopo aver ordinato la chiusura degli uffici pubblici a Bangkok – gli spostamenti nel centro rimangono problematici e diverse aree continuano ad essere off-limits – la task-force militare che gestisce la crisi (Cres) ha annunciato di aver congelato i fondi di 106 società o persone collegate a Thaksin, considerato il finanziatore a distanza della protesta.
Mentre il Cres ha evitato di proclamare l’atteso coprifuoco (“creerebbe ulteriori problemi alla popolazione’’), e nonostante le rassicurazioni di un esercito che sostiene di sparare solo contro “terroristi armati’’, un blitz finale contro la “città’’ delle camicie rosse non è da escludere, specie dopo la fine della finestra temporale che le autorità hanno concesso ai manifestanti per evacuare donne, bambini e anziani, promettendo di non perseguire anche eventuali uomini che volessero uscire per non rientrare più.
Sembra inoltre crescere la rabbia della gente anche nel popoloso nord-est, la roccaforte dei “rossi’’. Emulando i metodi della protesta a Bangkok, a Ubon Ratchatani i manifestanti hanno bloccato delle strade incendiando pneumatici. Il Cres ha provveduto ad estendere lo stato di emergenza ad altre cinque province nelle aree rurali, portando il totale a 29.
Una via d’uscita negoziale è forse ancora possibile; emissari di Abhisit hanno fatto capire che il piano di ‘riconciliazione nazionale’ può ancora andare avanti se le camicie rosse lo accettano, sebbene l’offerta di andare al voto il 14 novembre non sia più sul tavolo.
Nell’ultima settimana sono apparse sempre più evidenti le divisioni all’interno del movimento tra moderati e massimalisti: Veera Musikapong, leader dell’ala pro-negoziati, non si vede in pubblico da molti giorni.
Gli ultimi sviluppi mostrano che la bilancia pende dalla parte dei radicali. Ma se il prezzo da pagare rischia di essere troppo alto, la situazione potrebbe rovesciarsi.