Molto complessa ed estremamente diffusa
Qualcuno l’ha definita una malattia inventata, ma è piuttosto una condizione ancora in gran parte da chiarire nelle cause e nei meccanismi, che compromette anche in maniera significativa la qualità di vita di chi ne soffre. Dolori addominali, gonfiore, diarrea o stipsi: sono i sintomi della sindrome dell’intestino irritabile, una condizione che in forme diverse e con gradi diversi di gravità colpisce il 20-40% degli italiani, con costi stimati di circa 1.700 euro l’anno a paziente. Le cause non sono note, anche se di certo le alterazioni del microbiota intestinale e l’interferenza nelle complesse relazioni tra intestino e cervello, dovuta allo stress, giocano un ruolo importante. La ricerca italiana è all’avanguardia nel mondo in questo campo, sia nello studio dei fattori alla base della malattia che nei criteri diagnostici, messi nero su bianco per la prima volta a Roma e dalla allora chiamati appunto ‘criteri di Roma’.
La sindrome dell’intestino irritabile è senz’altro una patologia vera, tutt’altro che inventata, molto complessa ed estremamente diffusa. Si stima che a soffrirne sia dal 20 al 40 per cento della popolazione generale con una netta prevalenza del sesso femminile, in rapporto di 2-3 a 1 rispetto al sesso maschile. E’ anche una sindrome complessa e costosa perché chi ne soffre prima di arrivare ad una diagnosi, passa da un medico all’altro e fa moltissimi esami, spesso inutili. I costi complessivi (diretti e indiretti) annui di questa patologia si aggirano in media su 1,761 per paziente. Per quanto riguarda i costi a carico del servizio sanitario nazionale, oltre il 76 per cento di questi è dovuto ai ricoveri, più dell’11 per cento alla spesa per gli esami diagnostici e solo lo 0,6 per cento ai farmaci prescrivibili.
“La sindrome del colon irritabile è una patologia che appartiene al gruppo dei disordini funzionali gastrointestinali – precisa Antonio Craxì, presidente della Sige, la Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva – una categoria diagnostica identificata in base alla sola presentazione clinica e caratterizzata dall’assenza di un danno organico come causa patogenetica. Viene definita come dolore o fastidio addominale ricorrente, presente per almeno 3 mesi all’anno, associato ad almeno due dei seguenti sintomi: alterazioni della frequenza dell’alvo, alterazioni della consistenza delle feci, miglioramento sintomatologico al passaggio delle feci. Sembra una patologia banale, ma sia per i costi diretti (visite mediche, indagini diagnostiche, farmaci) che per quelli indiretti (assenza dal lavoro) costa 30 miliardi di euro in nei primo 10 Paesi dell’Ue. Solo in Italia ne soffrono oltre 3 milioni di persone e la IBS risulta ad oggi tra le principali cause di assenza dal posto di lavoro.
“Il dolore addominale (almeno una volta alla settimana negli ultimi tre mesi), le modificazioni e il miglioramento del dolore in seguito alla defecazione, la variazione delle modalità di defecazione nel tempo e la variazione delle caratteristiche delle feci sono i criteri che definiscono la sindrome dell’intestino irritabile” – spiega Santino Marchi, gastroenterologo all’università di Pisa e membro del consiglio direttivo della Sige – . Sulla base di questi sintomi che compaiano in un soggetto giovane e ovviamente in assenza di qualunque sintomo di allarme (come dimagrimento, anemia, familiarità per il cancro del colon) che devono portare ad una valutazione più approfondita è possibile fare con ragionevole certezza una diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile”.
L’esperto però raccomanda di fare attenzione ai “‘segni rossi’, i sintomi d’allarme estremamente importanti che devono far pensare ad altre patologie: sono ad esempio la perdita di peso e l’anemizzazione. Un soggetto con dolori addominali va sempre visitato con attenzione perchè la palpazione dell’addome può portare a scoprire ad esempio masse addominali sospette. Molto importante è poi la fascia d’età di comparsa dei sintomi addominali. Una sintomatologia tipo sindrome dell’intestino irritabile che compare nei soggetti al di sopra dei 50 anni, che non abbiano mai avuto alterazioni della funzione intestinale, né sintomatologia di quel tipo è sicuramente un elemento che ci deve portare a riflettere e a fare altre indagini che sicuramente in un soggetto giovane non faremmo”.
Fonte: askanews.it