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21 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

Storie di eroi del lavoro e disumane follie

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L’esperienza in Africa fu devastante.

Scene di disumana follia verso i disperati del Ciad (frontalieri africani) assunti dai caporali libici al porto di Derna.

Li osservavo nel trasbordo dei sacchi di cemento al porto pregando che non precipitassero dal pontile in acqua con il loro carico.

Erano piccolini, mucchi di ossa tenuti miracolosamente assieme dal genio del creato. Spesso, purtroppo, anche a causa di massacranti turni di lavoro, accadeva l’ineluttabile.

Non ho mai saputo ove finissero i resti mortali dei poveretti, anche se cercavo di scacciare il dubbio che, in realtà, venissero accatastati e sepolti in qualche caverna (una delle tante Foibe libiche) fuori città oltre la collina ove, al venerdì di ogni settimana, andavo, approfittando della Jeep di servizio, ad ammirare la maestosità del mare nostrum.

Un giorno assistetti, in diretta, al fatto. Osservo il giovanetto intento a sganciare la ganascia arrugginita della gru per poter liberare il carico. Del seguito, nulla so. Se non udire l’urlo di disperazione e vedere il sangue che fuoriesce dal muscolo della coscia ridotto in brandelli. Lo trascinano via, senza pietà, verso il vicino hangar.

Non vi dico il diverbio con il capo squadra del porto. L’accesa lite sino allo scontro fisico, sedato dalla vigilanza.

Ho, sulla Jeep, la cassetta sanitaria. Chiedo un aiuto. Poter lavare, alla bell’e meglio, la gamba ferita, su cui spruzzo una grande dose di penicillina in polvere (si usava  fine anni sessanta) e applicare un rigida fasciatura. Lo faccio trasportare al dormitorio. Ciao ragazzo. Ritrovo il piccoletto il mese seguente e in piena forma nel mostrarmi una estesa cicatrice in ricordo del dramma. Miracoli dei farmaci sui viventi vergini di ogni cura.

Shukran! Shukran! Lacrime di gioia a rigare il suo volto. Buona fortuna.

L’altro dramma avvenne lassù, sul colle di Vadi al Kuf ove si stava costruendo il secondo dei tre ponti Morandi che (Genova docet) non hanno avuto eccelsa fortuna. L’addetto alla vibrazione del calcestruzzo sulla parte terminale del pilone, viene urtato dalla benna in una operazione di scarico e precipita dal manufatto trecento metri sotto nel fondo valle.

Raccolgono i suoi resti con una pala gommata di servizio come si trattasse di resti inutilizzati di inerti ghiaiosi. Che Allah sia grande anche per te.

Protesto inutilmente. Me ne vado disgustato, poche settimane dopo, maledicendo questa progenie di mondo disumano.

Dalla Libia verso la Svizzera, accogliendo la proposta di lavoro di una impresa Elvetica del genio civile. Sono i prima anni settanta. Si è aperto il decennio della iniziative xenofobe (James Schwarzenbach e Valentin Oehen). La comunità italiana, parte maggioritaria dell’Immigrazione estera in Svizzera, è vittima di una “campagna diffamatoria e violenta”.  Se l’iniziativa avrà successo, oltre trecentomila nostri connazionali dovranno abbandonare il suolo della Confederazione.

Vincono i fautori di più diritti e solidarietà.

Nel fuoco della battaglia referendaria conosco tanti cittadini italiani impegnati che saranno poi il fulcro delle nuove organizzazioni democratiche in progress: partiti, organizzazioni sindacali e patronali, enti addetti all’insegnamento della lingua italiana per i figli degli emigrati, associazioni regionali.

Essendo uno dei tanti figli della diaspora italiana, l’emigrazione fa parte della mia storia di vita da una sera degli anni ’50 in cui, abbracciato a Etta, l’amata sorellina, e nostra madre, seguii con lo sguardo lo sferragliare del pendolare oltre i colli che sbarrano la vista della valle dopo la piana di Ardenno.

Non mi fu, quindi, difficile riannodare i fili degli entusiasmi giovanili per le cause nobili e impervie nel campo dei diritti e nei processi di rinnovamento civile, politico e sociale della comunità nazionale.

Sconfitti gli xenofobi, si apre una nuova stagione: da emigrati, unicamente braccia di lavoro, a cittadini, come nella nota definizione di Max Frisch.

Nel frattempo, siamo nel millenovecentosettantadue, è apparso sulla scena politica nazionale un personaggio assai strano.

Piccolo, un po’ curvo, l’aspetto emaciato e pensieroso di chi non stacca mai, una vaga somiglianza con un grande (Antonio Gramsci) del passato, e la lenta parlata che raddoppia le consonanti perché sia meglio compreso il basso tono della voce.

Ci innamorammo in tanti del suo messaggio, forte, persino, di una nuova e mistica spiritualità.

Era un figlio della Sardegna. Si chiamava Enrico Berlinguer.

Ma questa, è un’altra storia.

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