Il Gottardino delle ferrovie federali svizzere mi conduce sotto il massiccio della grande montagna trafitta dal genio dell’uomo, che la sottomise nel corso di più secoli ai suoi voleri, esaudendone l’aspirazione a conoscere e incontrare gli altri oltre il massiccio proteso a sfiorare le stelle del nostro universo.
Accompagno la commissione dei trasporti della camera dei deputati in visita ai suoi colleghi svizzeri. Scuserà il lettore se mai riesco, in tali occasioni, talvolta importanti e solenni, ad apprezzare l’opera che pur rappresenta quanto di più bello l’uomo possa fare per avvicinare le genti, confrontare culture e storie perché possano divenire patrimonio di tutti.
Il mio pensiero va alle tante vittime cadute nell’assalto alla montagna protetta da Ade, il dio del mondo delle tenebre e degli inferi, riti sacrificali per aver osato violentare l’androne segreto del mostro infernale. Furono centinaia, i caduti, due secoli or sono, durante il primo traforo. Ora, grazie ai progressi tecnici scientifici, molto meno (nove, nel corso dei lavori di Alp-Transit). Ma senza dimenticare il logorio fisico di migliaia di lavoratori che hanno operato in condizioni di estrema difficoltà con temperature che salivano oltre i 40 gradi centigradi, rendendo il lavoro degli addetti, duro e massacrante.
Immagino le loro anime vagare tra le rocce alla ricerca disperata del luogo, del masso assassino che arrestò il loro sogno di libertà e amore per la vita.
Vicende dell’uomo nel corso della sua storia millenaria, da cui, i poeti rammentati in una lettera inviatami da Luciano Bresolin, hanno saputo trarre delle liriche immortali.
Si, caro Luciano, ragazzo di una terra che ha donato il meglio del suo impegno creativo, come l’insieme della nostra Italia, alla storia dell’emigrazione italiana.
Assieme abbiamo vissuto giorni belli in cui credevamo di cambiare il mondo con il nostro entusiasmo e le nostre idee.
Ma il mondo ci ha tradito alleandosi con i cattivi della storia.
Se leggo il tuo scritto, in cui trovo l’orgoglio e la bellezza di un rapporto fraterno costruito nel corso dei decenni –
“Caro Gianni, ho terminato di leggere il tuo libro (uno dei pochi che sono riuscito a terminare.)
Il tuo modo di scrivere, i tuoi ricordi d’infanzia simili ai miei mi hanno ricordato la bottega del calzolaio in piazza ove ci rifugiavamo quando qualche temporale interrompeva i nostri giochi.
Ricordi la tua mamma Nilde come tutti noi che non siamo capaci di esternare come fai tu.
Ricordi i miei poeti preferiti da cui trai molti versi (Pascoli, Carducci, Foscolo) senza togliere niente agli altri a cui ti riferisci.
Ricordi i compagni e gli amici che non sono più tra noi, terminando con le parole di papà Cervi “vi lascio un buon nome.” Speriamo di lasciarlo anche noi.
Quanto hai viaggiato! E quanta gente importante hai conosciuto.
Non voglio dilungarmi oltre. Spero di rivederti al più presto, orgoglioso che tu abbia fatto parte (bei tempi) della nostra sezione.
E grazie per quanto hai fatto e farai ancora in futuro per noi emigrati.
Hai ancora un difetto. Tifi Milan e la bici attaccala al chiodo. Tanto, bastano Coppi e Bartali.
Ancora grazie, Gianni, per aver risvegliato le mie rimembranze. Con affetto, un forte abbraccio.
Tuo amico Luciano” –
non posso che esprimere un sentimento di forte passione, e di nostalgia per una speranza svanita, accumunato alla gioia per aver immaginato l’impresa: un mondo senza paesi come nell’immortale “Immagine” di Lennon.
Ho ricevuto tante lettere dai lettori de “La Pagina”.
Alcune, direttamente, altre attraverso il settimanale.
Elogiative o critiche.
Ho deciso di rispondere a quelle riguardanti lo spirito e la bellezza dei rapporti umani.
Sere fa, alla festa della canzone napoletana, impeccabilmente organizzata da Vincenzo Fontana e Giuseppe Gautieri, dirigenti delle associazioni campane in Svizzera, uno sconosciuto poeta in gara ha cantato una storia meravigliosa e straziante.
La vecchietta nonnina, quasi centenaria, che passa i suoi giorni con tutti i parenti rimasti (figli, nipoti, pro nipoti ) e tuttavia, a sera, coricata, si ritrova sola e parla al compagno, al padre dei suoi figli, al marito di una lunga vita, scomparso nel mondo dei più.
Gli parla come se fosse ancora lì, accanto a se, a costruire un avvenire gioioso per i propri cari.
È la storia nostra, caro Luciano, di tanti emigrati. Per chi non c’è più e per chi, come noi, continua a immaginare, come cantò John Lennon, un mondo senza frontiere, migliore.
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