E non altrimenti agisce, il male, ben oltre i millantati propositi dei soggetti. A volte dettati dal cinismo; altre, scatenati da impulsi vendicativi, che li inducono a erigere buffonesche muraglie di indifferenza; e che non di rado vedono i ponderati piani stravolti da una forza più strenua. E quella lezione che volevano infliggere, quel buffetto pedagogico, scatena invece un’ecatombe; il vezzo didattico dell’ammaestramento scava il deserto del giorno dopo; e la derisione del dolore ci prende la mano, e si svolge senza più freni e argini, per imperversare belluinamente, col nostro ormai impotente benestare. Lasciandoci alla fine, dopo tanta coerenza di progetti e ricatti, appena un pugno di polvere, in cui contemplare il vuoto di una vita spesa senza gioia e pienezza: vittime, più che artefici, di una calamità di cui siamo stati non giustizieri ma soltanto maldestri cecchini.
Aurelio ripensò allora al primo incontro con Costanzo, col quale aveva stabilito una complicità di intesa, quando ogni sera, distesi sul proprio giaciglio, ognuno partiva in perlustrazione verso il privato, dove nessun altro aveva accesso. Costanzo rammaricandosi di non aver ancora mantenuto la promessa di offrire a Elena una vita regale, e commosso per le vaghezze di quella cara anima che tanto avrebbe desiderato allietare. E lui, spettatore di un’analoga danza di ombre sul palco della memoria, dove da poco aveva preso a esibirsi Valeria, benché non l’avesse più rivista dai tempi di Salona. E così i due amici ogni notte si recavano all’appuntamento con le tenebre; e liberavano dolorosi sospiri verso le aure della Dalmazia o della Bitinia.
Durante le loro conversazioni al fuoco dei bivacchi, Aurelio sbarrava occhi febbrili, mentre un moto di amichevole invidia gli gonfiava il petto per Costanzo che possedeva una famiglia, verso cui sanamente e felicemente si protendeva, in mezzo alle esigenza delle armi. E ne confrontava il destino col proprio smacco, in cui ogni successo preparava una nuova rovina. Solo per la sua posizione privilegiata, in effetti, Carino si era accorto di Lucrezia; mentre, contro Valeria, che poteva di nuovo indurlo a sognare, si era erto il padre in persona, a convincerlo che a lui non era concessa una famiglia, e che avrebbe chiuso i suoi giorni in solitudine. E scalando dal personale al sintetico, Aurelio tornava al pensiero che certezze non brillano per nessuno; che tutto può mutare in un momento; e che nessuno può dirsi al riparo: siccome tutto, per ironia degli accidenti, capriccio o usura, tutto modifica col tempo. Così era stato per Costanzo: cui la nomina a cesare, in sé lieta, aveva aperto una falla affettiva; e così era stato per Diocleziano, al quale, secondo le velate allusioni di Valeria, la scalata all’impero aveva sottratto la pace. Come se il potere e gli affetti fossero fatalmente destinati ad escludersi, e l’impegno assunto con la collettività o con la storia impedisse all’uomo pubblico di coltivare gli affetti: poiché, vuoi per distrazione, vuoi per condanna del folletto interiore, smarrisce la sicurezza della grandiosa umiltà di chi l’ama.
Ma pur senza scomodare il tarli del potere, il male non imperversava comunque ubiquamente, e in maniera imprevedibile? tornava a chiedersi Aurelio. Forse che anche lui, fin là solo intento alla felicità domestica, non ne era stato bersaglio, solo per il fatto di avere una moglie bella, su cui si erano posati prima gli occhi e poi le mani di un dissoluto? Aurelio sapeva di non averlo mai provocato, quel mostro; di non averlo mai voluto stanare, e di non aver teso ad altro che al possesso della sua donna: e non era pertanto colpa sua se ne era stato aggredito solo perché Carino non controllava i suoi spettri, o lo esercitava per puro piacere. Senza invero che il suo dio cristiano, che avrebbe dovuto stendere la sua ala protettiva, avesse mosso un dito per impedirlo.
E dopo, quando anche lui l’aveva trafitto l’imperatore, facendosi cosciente esecutore della violenza, gli altri, curiosamente, non l’avevano inteso come un bene: a conferma che le umane azioni erano soggette a valutazioni discordi, e che tanto fallace era il giudizio. E dopo ancora, in seguito al fallimento del suo idillio con Valeria, quando, in conseguenza del suo gesto infame, aveva scorto una circostanza di riscatto, esso non aveva preso a pulsare il divieto sulla più casta storia d’amore, appena sfiorata e dispersa, innocente e pura, trasformandola d’un colpo in una tresca illecita: perché le leggi degli uomini sono in grado di deturpare le più oneste finalità, e non c’è probità che non rischi di meritare l’inferno. In questa griglia di non decifrabile assurdità, Aurelio aveva allora intravisto il volto più autentico del male: che non trovava discolpa in nessuna logica, e che sui grovigli della mente cuore innestava i cozzi del dolore, contro cui sempre più si smussava il segno di un dio giusto e misericordioso.
Da allora Aurelio aveva pedinato il paradosso della corporeità di Lucrezia, disfatta ma non più dissolta di Valeria, che pure continuava a muoversi per le vie del mondo, ma non era più sua di quanto non fosse una morta. Ché l’impossibilità le proiettava entrambe nella medesima evanescenza, e calava su di loro la condanna capitale, da cui poteva trarle solo la pietà del ricordo, finché resisteva; e prima che un morso di tradimento, o una la perversità degli eventi, vi stendesse il greve manto della dimenticanza. Oltre cui non perdurava che una rassegnata abitudine, pronta a lasciarsi travolgere dal disgusto per la vanità delle cose, o a piegarsi al richiamo demolitore della morte. Intesa, quest’ultima, come esecutrice di sentenze idonee a trasformare i corpi in fumo; come formula in cui quotidianamente si enunciano condanne sui volti incrociati al volo, su una strada percorsa per l’ultima volta, sull’estremo sorriso di uno sconosciuto. Finché un mattino, come ogni mattino esiliamo i sogni, anche noi inavvertitamente dilegueremo dalla memoria di chi una volta ci amava, e presso cui il ricordo, se mai riemerge, è soltanto molesto. Una morte, pensava Aurelio, operante come un silenzioso rotolare a valle, sotto il sopruso che vilmente assecondiamo, senza accorgerci dello sfilacciamento della maglia che, tra rimpianto e menzogna, dopo averci limati e derisi, si sgrana infine del tutto.