In queste settimane dopo il primo articolo di Antonio Ravi Monica si è scritto molto a proposito delle certificazioni proposte agli alunni dei corsi di lingua e cultura. Perché, dopo dieci anni, ricominciare a discutere con tanto calore di questo argomento che sembra secondario rispetto ad altre emergenze? La discussione si è sclerotizzata su due posizioni: da una parte alcuni rappresentanti degli Enti certificatori che sostengono l’eccellente qualità del prodotto che offrono (valido in tutto il mondo e riconosciuto dal Quadro comune europeo di riferimento per le lingue) dall’altra i docenti, i linguisti e gli esperti che sostengono l’inutilità delle certificazioni per gli alunni di lingua madre dei corsi. Così impostato il dibattito potrebbe andare avanti all’infinito con dotte e analitiche disquisizioni volte a definire quali alunni possono dirsi di lingua madre e quali no, quali docenti sono missionari e quali no, quali obiettivi e metodi permettono di studiare davvero l’italiano e quali no.
Un tale modo di argomentare sortisce solo l’effetto di disorientare i lettori, i genitori, gli amici, la gente comune che fa fatica a seguire tutte le implicazioni della tematica. Fuorviante accanirsi per cercare di individuare chi è meglio e chi è peggio. Le certificazioni valutano la competenza e i progressi di chi studia una lingua straniera, ma non sono l’esame adatto, “giusto” per gli alunni dei corsi di lingua e cultura. Solo pochi alunni affrontano la prova in tutte e quattro le abilità nel livello di competenza più alto (livello che può considerarsi un dignitoso riconoscimento del legame viscerale e profondo che unisce questi ragazzi alla lingua italiana). Altri provano un livello intermedio, superano tre prove con voti alti, tranne una, la più difficile per loro e devono rifarla l’anno successivo (magari sarebbe successo lo stesso con un livello più alto), oppure non ce la fanno (sempre in un’abilità) per timidezza, perché quel giorno stanno male, per emozione. Vero che la maturità e la crescita di un individuo e di un ragazzo si esplica proprio nella capacità di affrontare gli alti e i bassi, i successi e gli insuccessi, le gioie e i dolori che scandiscono l’esistenza di ognuno. Ma questi ragazzi registrano un fallimento o una diminuzione proprio in quella competenza che è un loro punto di forza e di distinzione, come spiega bene il professor De Rosa. Senza parlare dei ragazzi che si cimentano con il livello soglia mentre si sentono e sono profondamente italiani anche solo nelle loro manifestazioni adolescenziali, nella loro capacità di capire e comunicare in un gruppo.
Se una prova non dà a tutti gli alunni (e non solo ad alcuni) la possibilità di esprimere (con le individuali differenze) quel valore aggiunto della loro identità a tutela del quale sono stati istituiti i corsi, vuol dire che non è la prova adatta per i nostri alunni, come non sarebbe una certificazione proponibile agli studenti italiani di terza media (almeno credo). Nonostante ciò, in questi dieci anni, le certificazioni hanno prodotto degli effetti positivi, anche solo perché hanno messo in risalto la necessità di istituire una prova che rendesse visibile a tutti (tramite il rilascio di un attestato), i progressi e il lavoro che i ragazzi fanno nei corsi per sviluppare e coltivare la loro rapporto con la lingua italiana. Le certificazioni hanno anche evidenziato la necessità che la valutazione finale della scuola non sia autoreferenziale. Principio sacrosanto e moderno, ma non è il privato che certifica la scuola pubblica, caso mai avviene il contrario: è lo Stato che certifica il privato. Mi domando perché in tutti questi anni non si è pensato di rilanciare l’idea dell’attestato dove segnare il voto ottenuto durante una prova approntata da docenti MAE e locali dei Corsi di Lingua e Cultura Italiana?
Perché è un costo, mi si risponderà, ma nell’ammontare dei costi sostenuti per la scuola all’estero (tanto o poco siano o che siano stati) forse si può ritagliare un capitolo di spesa per una prova alla fine del ciclo scolastico alla quale poter invitare qualche rappresentate della scuola locale come membro esterno. Sarebbe anche un’opzione non autoreferenziale e di promozione dei corsi. Forse il cambiamento è proprio questo, non solo tagliare spese o vendere pezzi di Stato ai privati, ma ridistribuire le risorse, riequilibrare la garanzia dei diritti: quelli acquisiti e i diritti nuovi emergenti dei più deboli. Si potrebbe obiettare che le mie osservazioni siano sbagliate, che i ragazzi dei Corsi non siano di madrelingua. Se ciò fosse vero, allora, per effettuare un consistente risparmio, il Ministero dovrebbe consegnare tutto questo “carrozzone sbrindellato” (come alcuni lo definiscono) agli enti certificatori, i quali dovrebbero poi riqualificarlo per un’utenza diversa dai madrelingua, ma senza contributi pubblici. Qualunque sia la risposta corretta bisogna essere trasparenti nella comunicazione ai ragazzi e alle loro famiglie. Una comunicazione poco chiara ci ha ridotto a consegnare alle nuove generazioni uno Stato indebitato perché non ce la fa più a pagare tutto ciò che si è impegnato a garantire e quindi appalta al privato la tutela di nuovi diritti e dei più deboli, di quelli che non capiscono. E il privato offre prodotti smaglianti, costosi, ma a volte non adatti alla specifiche situazioni per cui vengono proposte.
Paola Frezza