Una mattinata plumbea e piovosa. I 262 rintocchi della campanella. Una folla silenziosa e commossa. La cattedrale d’acciaio, arrugginita dalla violenza della natura e per l’incuria dell’uomo nel corso dei decenni dal lontano 1956. Otto anziane signore vestite, come si usava un tempo, nel segno di un austero decoro, il capo coperto da un velo nero a nascondere i capelli, prematuramente, ingrigiti nel corso di una vita tribolata eternamente in attesa del loro uomo ogni giorno mille metri più in giù a violentare il grisou per scaldare le case dei ricchi e accendere le fornaci dell’industria metalmeccanica rinata dalle ceneri postbelliche. Parlano gli oratori previsti a conclusione della mesta celebrazione.
Cose ripetute. Spesso declamate con quella mancanza di pathos tipica di chi svolge un dovere lontano da ogni sentimento di commossa partecipazione.
Nulla di nuovo, direi, se non fosse per le otto vedove superstiti che assistono alla cerimonia sull’attenti come una brigata italiana dell’armata del Don nel saluto ai compagni d’arme caduti nella tempesta di fuoco e gelo nelle lande della pianura russa nel corso della rovinosa avventura totalitaria nella terra degli slavi.
Per ogni rintocco della campanella, un nome, e tu sai che chi lo ha portato è stato annientato dalle fiamme del gas assassino a cui lui ha offerto l’estremo sacrificio.
Un nome e poi un altro. Un rintocco cui segue un rintocco.
Tutti uguali nella loro cupa tristezza se non fosse che, per otto nomi, le guance delle anziane signore si rigano di qualche pudica lacrima, rimasta, non si sa come e per quale arcano destino, a ricordare il minatore, l’uomo, il marito e padre dei pargoli che non è più.
Ci vado ogni anno, l’otto agosto, a Marcinelle, a ricordare la tragedia del 1956.
Ritrovo ogni volta i compagni di una vita.
Vengono dai tanti villaggi della Vallonìa e della Lorena ove l’emigrazione italiana ha scritto le pagine più gloriose della sua storia.
Rivedo i compagni del vicino Lussemburgo, di Bruxelles, della Saar germanica e tanti altri.
È bello, seppure con un velo di nostalgia, ricordare assieme grandi e piccole vicende di vita vissuta. Non tutti sono presenti. L’età, accoppiata ai malanni, li ha prematuramente carpiti alla vita.
È un ritorno al passato.
Le stele di Mario, di Paolo, Giovanni e Umberto, il combattente sopravvissuto ad Auschwitz, che ebbi l’onore di ricordare nella chiesa del villaggio al cospetto dei famigliari e di una grande folla di nostri compatrioti.
Rivedo le gesta dell’uomo, l’impegno, la passione, i “cahiers de doléances” che Umberto estraeva ogni qualvolta si discuteva di diritti e doveri dei nostri emigrati.
L’estate è finita.
Si ricomincia.
Per me – d’altronde, non è una novità- sono state vacanze un po’ così.
Diversi viaggi a Roma per i lavori straordinari delle commissioni.
Una settimana tra le mura dei miei cari in Italia: Etta, l’amata sorella e mamma Nilde, alla vigilia dei suoi novantasette anni di vita.
Si sta spegnendo piano piano, mamma mia, come una candela accesa a rischiarare la modesta dimora – una baita o poco più -ove ho vissuto, con lei, Etta e il babbo Ettore, i miei primi venti anni.
Mi guarda con quello sguardo, tra lo spento e l’acuto, come se cercasse di riassumere il senso di una lunga esistenza.
Il tempo ha devastato il fisico della donna straordinaria che, in ogni momento difficile e drammatico della sua e nostra esistenza, reagiva con il coraggio di chi sa che il domani è un altro giorno: con le insidie, le tragedie, ma anche le bellezze che la vita può riservare.
Nulla di nuovo sotto il pallido sole settembrino.
Continua la violenza sulle donne.
Che si tratti di cittadini italiani, comunitari o immigrati, le scene sono sempre le stesse: violenza, disprezzo, dominio, efferatezza verso la metà del cielo per cui la sorte è stata, spesso, breve e brutale, oppressiva.
Nel mondo, senza che i potenti nulla abbiamo imparato dalle vicende storiche del novecento, si riparla- l’esempio viene dal despota nord coreano – di armi atomiche e nucleari come strumenti di difesa e annientamento per i nemici. Riapre il parlamento con i tanti problemi all’attenzione dell’assemblea.
Uno su tutti, a prescindere dagli impellenti impegni economici finanziari per rilanciare con più forza la ripresa, riguarda la definitiva approvazione dello “Ius soli” per riconoscere al milione di giovani immigrati nati in Italia il diritto di una piena cittadinanza.
Una scelta di civiltà per onorare la nostra Italia, dando un senso compiuto al valore della convivenza tra liberi e uguali nella nostra Patria.