Vinicio Capossela tornerà ad esibirsi dal vivo al Kaufleuten di Zurigo il 14 maggio 2017 con il tour “Ombra, Canzoni della Cupa e altri spaventi”, durante il quale presenterà la seconda parte del suo ultimo album. Al centro dello spettacolo, organizzato da Allblues, accanto alle Canzoni della Cupa, troveranno posto anche altri brani del repertorio del cantautore di origine irpina. Lo abbiamo intervistato
Le sue canzoni si nutrono avidamente dei luoghi che visita, dai quali prende storie, suggestioni, immagini. Figlio di immigrati italiani, ha lasciato da giovane Hannover, dov’era nato, e ha battuto in lungo e in largo bar, teatri e sale da concerto dell’Emilia-Romagna prima e dell’Italia intera poi. Canzoni della Cupa, il suo ultimo disco, è un viaggio in Alta Irpinia, terra montuosa nella provincia di Avellino dov’è nato suo padre, Vito.
“L’Ombra è come una grande scatola in cui abbiamo buttato fin da bambini le cose che abbiamo temuto di mostrare”, racconta Vinicio Capossela, “l’inconscio personale e quello collettivo stanno in questa grande scatola. Un’Ombra che non nasconde ma rivela: sentimenti, assenze, malebestie, animali totemici, radici, proiezioni, ritrovamenti, defunti, archetipi, draghi, duplicità, governi, personalità”. Canzoni della cupa, uscito nel 2016, è un album doppio di 28 canzoni, diviso in due parti, Polvere e Ombra. Si apre con il canto di lavoro Femmine e si chiude con Il treno, un brano sospeso tra echi morriconiani e ritmi sudamericani.
Il disco ha avuto una gestazione lunga. Perché? “Ci ho lavorato a fasi alterne per ben 13 anni”, ci spiega Capossela, “questo album richiedeva tempi agricoli. Bisognava seminare, far crescere le cose e poi fare la mietitura. È un disco che nasce dalla terra e per questo ne ha rispettato un po’ i tempi ciclici. Ho cominciato a registrarlo nel 2003 in Sardegna. Negli ultimi due anni, dopo aver finito il libro Il paese dei coppoloni, ho rimesso mano anche alle canzoni. È come in agricoltura: se perdi la vendemmia a settembre, devi aspettare l’anno successivo per recuperare il tempo perso.
Il primo “lato” è fatto di canzoni folk riprese dalla tradizione del sud Italia. Per costruirlo, il cantautore ha attinto da canti di paese, ma anche dal repertorio di cantautori italiani del passato: uno su tutti Matteo Salvatore. Il secondo lato è quello dedicato al bestiario delle creature della Cupa e alle processioni religiose. La canzone “Il Pumminale” è ispirata alla leggenda legata alla misteriosa figura del lupo mannaro.
Perché questa ossessione per i bestiari? “I bestiari nascono per ingigantire paure. Da piccolo ti dicono di non affacciarti nel pozzo perché sennò ti prende il demone Maranchino. Mio padre mi ha raccontato che fino a poco tempo fa, ma ora non più, riusciva a impaurire il nostro nipotino con i canaglioni, che sono dei grossi cani. Le creature della Cupa restituiscono al mondo un suo mistero, ma hanno anche una funzione sociale. Nel mondo che studiava Ernesto De Martino, dove non c’era lo psicoanalista, il disagio psichico si curava con il mito e le ritualità magiche. Dare un nome ai propri demoni è un modo per cercare di ricomporre le fratture del mondo. A forza di accendere luci sulle cose, abbiamo perso per strada l’immaginazione, la dimensione smisurata delle cose”.
I suoi concerti spesso si chiudono con il brano « Il treno ». Sarà così anche a Zurigo? “Probabilmente sì, il concerto si chiude riprendendo l’ultimo pezzo dell’album per ricordarci che tutto questo mondo antico non esiste più. E il treno che se l’è portato via è quello della storia, esattamente come sta smuovendo oggi intere parti della terra. Il vero evento centrale di questi anni non è la guerra in Siria, ma questa migrazione biblica a cui stiamo assistendo più o meno distrattamente. Non bisogna soltanto pensare alla gente che arriva, ma anche a cosa lascia, a come questi flussi economici stiano svuotando terre intere e paesi. Le comunità si disgregano e possono riformarsi solo nel racconto, proprio quello che ho cercato di fare io con queste canzoni».
Si avverte un certo snobismo nei confronti della tradizione folk italiana, anche se in Italia abbiamo un grande patrimonio di brani folclorici, di canti di lavoro, di canti anarchici. È d’accordo Capossela?: “Bisogna distinguere il folk e la musica folcloristica italiana. È il folk tradizionale che non riceve l’attenzione meritata. L’hanno studiato più all’estero che in Italia.
È molto peccato quello che non si è saputo fare della musica folk italiana, che negli anni sessanta e settanta ha avuto delle straordinarie scene sperimentali con musicisti come Antonio Infantino, che suona anche in Canzoni della Cupa, i Tarantolati di Tricarico, Enzo Del Re, Giovanna Marini. Lo stesso Matteo Salvatore, che è stato un grande cantautore, è stato spesso trattato come una macchietta”.
Bruno Indelicato
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