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22 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

Indizi (o gocce) di felicità pensando al documentario di Walter Veltroni

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Pernotto a Roma in una locanda nei pressi della stazione termini. Il viaggio in treno da Sondrio, un’eternità se pensiamo ai nostri giorni.
Il Freccia Rossa si poteva immaginare, con qualche fantasia, leggendo Salgari o giù di lì.
Qualche ora di riposo tra il frastuono del via vai dell’albergo adibito, forse, agli incontri d’amore delle belle di notte.
È l’alba, armato di un borsone contenete le poche cose – qualche indumento e nulla più- salgo sulla sgangherata corriera che mi porta a Fiumicino per l’imbarco, direzione Libia.
Siamo nel mille novecento sessanta sette dell’anno del Signore, nulla a che vedere con il formicolio del mondo viaggiante negli aeroporti internazionali d’oggi.
Attendo, impaziente, l’annuncio per l’imbarco.
Sino allora la mia vita è stata amara di soddisfazioni e di gioie terrene.
La drammatica esperienza universitaria interrotta in mancanza delle pur minime condizioni di vita per vincere la sfida di apprendere nella città che ho amato ancor prima di conoscerla attraverso i racconti e le fiabe di mia madre.
Una breve esperienza lavorativa nei grigioni svizzeri e nel vicino Ticino, troncata dal becerume punitivo di un tecnico locale a cui non sembrava vero poter mettere preventivamente in pratica le idee perverse di un certo Schwarzenbach.
Ascolto il gracchiare dell’ altoparlante: il volo Caravelle dell’Air – France per Bengasi all’uscita 14.
È il mio primo volo e non passerà molto tempo perché io potessi vivere la drammatica avventura del piccolo Fokker in caduta libera sulle dune del deserto libico con i motori ingrippati dalla rosea sabbia portata dal Ghibli.
Meraviglioso lo scorgere della penisola dall’alto, quasi una ripassata dei primi anni di scuola con lo stivale colorato appeso alla parete perché gli imberbi fanciulli conoscessero la patria ove sono nati.
Intravvedo un’estesa agglomerazione adagiata tra i monti e l’azzurro del mare, (Napoli?) un po’ tempo dopo il pizzo fumante dell’Etna, e poi solo il blu interrotto qua e là da macchie di terra, le isole amiche del già mare nostrum.
Viaggia, accanto a me, un ragazzo minuto, il volto scalfito da rughe da sembrare già vecchio. Passa l’Hostess di bordo a offrire dell’acqua e un po’ di caffè.
Lui ringrazia, estrae dalla tasca interna della giacca il porta monete per saldare il dovuto come s’usa alla bettola del paese natio.
L’hostess sorride con un “De rien Monsieur.”
Ho notato una foto di bimbo e di donna a cui il giovane ha dato uno sguardo che esprime tristezza e suprema dolcezza.
Gli parlo. E come se lui avesse aspettato il momento, atteso un po’ di conforto.
Racconta e racconta. Di come il bimbo è malato di un male
( Epilessia ) allora chiamato caduco, e per curarlo, dal borgo montano della regione Molise occorre raggiungere Roma, l’ospedale chiamato Gemelli.
Ha venduto il suo solo podere, e la baracca chiamata officina ove lui riparava gli attrezzi malmessi dei contadini del borgo. Ma ciò non bastava ed eccolo qua. Lo rincuoro e mi faccio coraggio. In fondo, io penso, a me non va poi così male.
Quando tu tornerai a Rionero Sannitico d’Isernia, il bimbo, rimesso dal male e sua madre, ti accoglieranno sull’uscio con un grido di gioia: Rosario è tornato!
Sorride, il ragazzo. Una primo, unico indizio di gioia e di felicità.
Laggiù a Wadi al-Kuf, sulle alture della Cirenaica, ove si sta costruendo il più grande ponte sospeso del nord Africa, svolgo da quel momento il mio nuovo incarico di tecnico responsabile per le forniture del materiale occorrente alla costruzione dell’opera.
Nell’officina del cantiere lavora un giovanotto proveniente da un villaggio montano, Ponte nelle Alpi, del bellunese.
A sera lo scorgi leggere una lettera dallo scritto minuto e ordinato tracciato, come allora si usava, con il famigliare righello. Talvolta gli scende una lacrima nascosta dall’improvviso starnuto. Nasce una vera amicizia.
Mi mostra il foglio perché io possa capire il senso dell’intensa lettura.
È un racconto di donna. Penelope che attende il suo Ulisse.
Il vicolo del loro primo abbraccio. Il monte da cui spaziare lo sguardo verso l’infinito della grande pianura. Il podere su cui costruire il rifugio del loro amore. I bimbi che verranno per allietare l’unione di una vita. Lo chiamano in ufficio.
Ha ricevuto una nuova missiva. È Silvana. È lei che gli scrive di nuovo.
Attendo un bambino. L’ultimo incontro prima della partenza ha realizzato il loro sogno. Lacrime di gioia nell’attesa del ritorno. Sono indizi di felicità come quelli descritti da Walter Veltroni.
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