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22 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

Auguri! care e cari, lettrici e lettori Nell’attesa del Nazareno che annunciò la lieta novella

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Nell’attesa del Nazareno che annunciò la lieta novella

Ampi fiocchi da sembrarti nuvolette svolazzanti nel borgo assopito nella quiete del lungo letargo invernale.

La bianca coltre – un metro e forse più – ha coperto ogni cosa: il filare delle viti nel campo vicino è scomparso all’abbraccio del manto biancore; il viottolo che conduce alla casa dei nonni paterni non è più visibile ai miei occhi tanto da domandarmi come farò per raggiungere il nonno Ernesto e farmi raccontare la leggenda dei minatori nella lontana terra dell’Ontario. Lui sopravvisse ai tentacoli del Dio tenebroso dell’Ade celato nel fondo di quella maledetta miniera e decise di ritornare al villaggio natio. Gratto i fiori di ghiaccio dei vetri della finestra che guarda a Sud Est e scorgo il massiccio dell’Adamello immerso nel turbinio della bufera nevosa, talmente imponente da sembrarmi il mostro gigante eretto a dominare la valle.

Tutto tace, tanto che mi sembra di udire persino una flebile nenia provocata dai fiocchi nel mentre vanno all’abbraccio della madre terra. Eppure, ogni tanto, lo scampanellio della vicina stalla, mi dice che qualcuno da segni di vita, chissà, la capretta chiamata Giustina che ci dona il latte al sorgere dell’alba e quel misero passero, forse, nel suo ultimo volo prima di donare la vita al Dio del gelo. È un venticinque dicembre qualsiasi nel decennio a cavallo degli anni cinquanta.

Con quella tosse assassina che mi ha sconvolto la notte, pur se protetto dal manto delle tante coperte di lana con cui mi avvolgevo sino a coprire i riccioli biondi della mia fanciullezza accarezzati da mamma Nilde accorsa a ridarmi uno dei tanti istanti d’amore. Mi sono alzato un po’ prima del solito,  puntando lo sguardo alle lastre ghiacciate della fontanella vicina da sembrarmi il salice piangente  in un’alba del mese di maggio.

Ma, forse, il motivo era un altro: scoprire con gioia i doni di Babbo Natale nascosti nell’ampio calzettone di lana usato, sin lì, dal babbo per proteggere il piede sotto gli scarponi chiodati nel lavoro dei boschi del periodo invernale. Lo vedo, il monello, nascosto nel cesto sotto un maglione color antracite – forse un pensiero della nonna materna,

Lo sollevo con l’avidità del ragazzo che aspetta ogni anno quel giorno: un mandarino e un altro ancora; un’arancia da sembrarmi così grande da spezzare l’albero da cui la staccò la mano dell’uomo in una terra a me sconosciuta, lontana; una marea di contorte gallette; i marroni con il profumo della griglia serale;  qualche cioccolatino, che scarto e riavvolgo più volte prima di avvicinarlo alla bocca perché duri il più tempo possibile la gioia del dolce, invitante, sapore.

Un po’ più lontano, accanto alla parete, il grezzo slittino costruito dalle mani sapienti del babbo nel passato autunno in quel luogo dell’alpe chiamato Prenzera. Lo afferro ed è come un sogno. Mi vedo sfrecciare sulla rampa che, dal quel che rimane del castello feudale, conduce sino al fondo della valle del Livrio: duemila metri e più di spensierata ebrezza sino a quando il capo delle guardie locali  se lo portò via e fu, per me, come perdere un fratello  giammai conosciuto, sessantacinque anni o giù di li.

Ancora non è l’alba. Cammino sotto un nevischio misto a pioggia ghiacciata verso la stazione per prendere il treno che mi condurrà a Ginevra all’appuntamento con i nostri anziani per il pranzo augurale dell’anno che verrà.

Luminarie erette da più settimane. Sirene accattivanti per attrarti all’orgia di un effimera gioia che ha distrutto il sentimento più puro dell’uomo che cercò di affratellare gli umani in un tempo remoto.

Sono all’imbocco della piazzetta rischiarata dallo sfavillio invitante dei messaggi natalizi. Un Alpamare per ricrearti la magia del blu di un oceano dell’uscio di casa; il super market; la sigla di sette banche sette, racchiuse  nella corta vista di un miope che ha smarrito gli occhiali: apparenza e nulla più.

L’intercity sfreccia tra il bianco della natura dicembrina. Riaccendo il Natel per leggere, in diretta, le notizie dal mondo. Decine, forse centinaia di affogati nel profondo del mare nostrum. I crimini, nel continente nero, come nelle terre della Siria e del Kurdistan, non fanno più notizia.

Che la festa continui, al suono dell’orchestra sul pianeta Titanic, in attesa di incontrare il mostro che ti attende laggiù, nell’abisso dei sentimenti smarriti. Mi assale il dubbio: Jesus, il Nazareno, ha vissuto e predicato invano? O forse, no!

Qualcuno ti dirà sempre: nessuno può accecare i tuoi sogni.

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