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22 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

Il maestro e la maestra della quinta elementare

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Talvolta ritornano nei sogni del fanciullo che fu

La maestra e il maestro delle elementari in un villaggio della Valtellina: Caiolo alias Soltojo, nella notte dei tempi.

Mi osservava, quella straordinaria donna già in là negli anni, nel mentre scaricavo la rabbia repressa sul quadernaccio nero, dono del patronato ai ragazzi delle famiglie più disagiate del borgo. Scarabocchiavo tutto: la collina dei castagni che potevo osservare dalla finestra dell’aula scolastica sita al 3° piano; le stalle del bestiame  attorno, i prati rumoreggianti dei  campanacci  delle mucche al pascolo; l’imponente costruzione neo classica del palazzo, oggi, comunale; il via vai dei contadini produttori alla  locale latteria, ricchezza e vanto dei piccoli allevatori locali; le  pesanti biciclette utilizzate dagli operai del cotonificio Fossati per i loro spostamenti tra casa e lavoro; e la piccoletta, primo amore della mia vita, il cui viso portava  gli inconfondibili segni mediterranei di chi, nel bene e nel male, porta le stigmate dei raggi del sole che non conosce  confini.

Schizzi senza senso. La maestra guardava, senza un qualsivoglia commento, aspettando forse il momento in cui il ragazzo, ritrovata una sua tranquillità interiore, potesse rispondere alle sollecitazioni dell’insegnante, sua consigliera e amica. Era socialista, quella donna straordinaria. Ricca del socialismo romantico della gente buona che si rifà al messaggio straordinario del Nazareno, di un popolo laborioso che crea ricchezza collettiva per i bene di ognuno. A tutti e tutte una carezza, un sorriso, un conforto, un incitamento, una correzione e un rimprovero per una qualche manfrina, tanto lieve da destare persino sorpresa al reprobo che temeva una grave punizione. Socialismo di che cosa?

Più tardi, ma non molto, dopo la repressione degli insorti ungheresi nel 1956, quel socialismo si definì “dal volto umano”, per distinguerlo dall’esperienza del collettivismo totalitario russofono. Mi osservava, la donna, e intuivo che mi era amica e mi accompagnava come un immaginario angelo custode nel corso dell’impervio cammino della ancor giovane e pur tribolata vita.

Il maestro, anche lui un po’ in là negli anni, era di tutt’altra tradizione storica e umana.

Li accomunava: il senso del dovere, l’amore per l’alto ruolo educativo, l’onestà e l’integrità morale.

Lui, e lo capii molto più tardi, ricordando un suo racconto storico alla classe della quinta elementare, era un monarchico quasi mistico.  Parlava del rinascimento e delle vicende storiche che portarono alla costruzione del Regno d’Italia, quasi fosse l’erede di quell’unico valtellinese (dei tanti che lo avevano omaggiato e applaudito nella piazza dedicata oggi all’eroe dei due mondi) che seguì Garibaldi verso l’avventura delle due Sicilie e incontrò poi, risalendo lo stivale, il Re Vittorio Emanuele II a Teano, salutandolo come primo Re d’Italia. Spiegava il risorgimento come una gloriosa e fastosa vacanza popolare: da una parte, stava tutto un popolo in festa tra lo sventolio delle bandiere tricolori e dall’altra, qualche cattivo malintenzionato a cui fare assaggiare l’onta della vergogna. Raccontava come negli ultimi decenni, l’Italia avesse passato momenti difficili e tanti nostri padri e zii, fossero morti nel corso di una lunga guerra imperiale.  L’Italia, ci disse, era dominata da un uomo tanto cattivo da umiliare, perennemente, il nostro Re. Bello il racconto di una celebrazione nella Roma dei “Fori imperiali”. A Vittorio Emanuele III cadde il fazzoletto e l’uomo cattivo si chinò per raccoglierlo.

Gelida fu, la risposta del Re: mi lasci almeno quest’ultimo diritto.

Vittorio Emanuele III e Mussolini, il capo del fascismo. Una verità fallace, pur ricca di un romanticismo antistorico a cui molti si aggrapparono per salvare la storia della Casa Reale, colpevole, essa stessa, delle malefatte del fascismo.

E pur tuttavia, il maestro di quel tempo, con il racconto privo di ogni propaganda di parte, salvava il sogno risorgimentale e preservava l’unità della Patria.

Il maestro e la maestra, forse venuti da mondi lontani. Si incontrarono un giorno per insegnare la grammatica italiana agli infanti di un villaggio della nostra Valtellina.

Il loro ricordo non mi ha mai abbandonato.

Compresi, d’altronde, come talvolta non è importante essere dalla stessa parte della barricata, se chi è dall’altra parte guarda agli eventi con la mente aliena dall’odio che ha diviso le genti e seminato la terra di lutti e tragedie, mesto ricordo della nostra storia.

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