Nel 2018 il 26,8% degli europei ha acquistato online un capo di abbigliamento. Spesso, si ignorano le provenienze dei nostri acquisti ma anche la loro destinazione in caso di difetti
È facile e veloce. Basta un click, l’inserimento del metodo di pagamento e in pochi giorni arriva al nostro indirizzo il vestito, le scarpe, il costume che avevamo scelto. Il pacco postale con dentro i nostri desideri ha sempre l’effetto sorpresa e per questo piace a tutti, sia per la comodità di non uscire di casa, sia per la scelta a disposizione. Tranne quando c’è qualcosa che non quadra. La taglia è sbagliata, i pantaloni non entrano neanche al di sopra del ginocchio oppure la coppa C del bikini in realtà è una B. Capita che il prodotto che ci aspettavamo non è esattamente come quello che mostrava la fotografia sul web, modello diverso, cuciture raffazzonate, tessuto in pura plastica stropicciata (e difficilmente stirabile) per non parlare dei colori completamente diversi. Succede. Soprattutto se il sito su cui abbiamo fatto l’acquisto è una vetrina accattivante di abbigliamento a prezzi stracciati che spedisce dai paesi asiatici: l’annuncio è solitamente su facebook e appare come promozione pubblicitaria; le immagini sono di un paio di sandali in pelle con inserti in corda e diversi strass che impreziosiscono i lacci. Sembrano belle, ci si convince che per 15 dollari valga la pena e si fa l’ordine con la carta di credito o paypal. Poi si aspetta un pacco che solitamente non arriva senza avere neanche una risposta ai nostri solleciti. Nel caso fortunato che il pacco venga spedito, si trovano un paio di sandali che puzzano tremendamente di petrolio e i cui lacci – con due strass sbeccati – si rompono solo a guardarli. In questo caso diciamo addio ai nostri 15 euro insieme alla nostra ingenuità. A favore dei bidoni dell’indifferenziata.
Parliamo di moda fast, che si produce in fretta e che si logora alla stessa velocità, spesso realizzata in laboratori in Bangladesh o in quei paesi “in via di sviluppo” ma il cui, appunto, incremento economico, è frenato da stipendi che non consentono la sussistenza. Certo, si crea lavoro per la manodopera ma con una produttività talmente di bassa qualità a cui viene preferito essenzialmente la quantità a discapito sia della merce che dell’esistenza di chi la produce. Non facciamoci ingannare dalle promozioni on line di abiti a prezzi ridicoli. Abbiamo bisogno proprio di quel nuovo “elemento” da 10 dollari nel cestino? Chiudiamo il sito, ritorniamo a curiosare le foto della cognata su facebook e la nostra dignità ci ringrazierà. E pure il nostro armadio.
Diverso è il discorso di ordinare su piattaforme affidabili come Zalando. La camicia che avete ordinato è arrivata macchiata, difettata o semplicemente è orrenda? Si può rispedire al mittente facendosi restituire i soldi oppure evitando di pagare il bollettino annesso nella confezione. Sperando di avere più fortuna con il prossimo ordine. Ma che fine fa questa camicia con una macchiolina sul polsino? No, non viene lavata e rimessa in commercio; spesso viene semplicemente cestinata perché il costo del lavaggio, stiratura e confezionamento non conviene. A denunciare questo comportamento sono i Verdi della Germania che alla stampa chiedono ai colossi dell’e-commerce di rivedere la loro politica sui resi. Amazon, per fare un esempio, distrugge circa 1000 pacchi al giorno solo in Germania, l’equivalente di una percentuale tra i resi che varia dall’1 al 2,9%.
Costa veramente meno al budget aziendale mandare in discarica una camicia piuttosto che venderla a basso costo ad una volenterosa cliente disposta a smacchiarsela da sé?