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1 May 2024
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STORIE di Gianni Farina

Ascoltammo un bip e nulla fu più come prima

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Accadde nel 1957 dell’anno del Signore

Era l’anno millenovecento cinquantasette della nascita del Nazareno. Un bip bip, e il mondo guardò all’insù, oltre l’orizzonte dell’azzurro, per scoprire quella luccicante palla con l’antenna di un ufo marziano in viaggio nell’immensità del cosmo. Un bip, come un saluto agli umani in ascolto e in attesa di una nuova novella.

Verrà poi Laika, la gentile cagnetta, alle cui sofferenze ognuno di noi dovrebbe dedicare un commosso pensiero, perché morì tra il bagliore delle stelle senza capire il perché e il percome.

E poi, Jurij Gagarin e Neil Armstrong, l’uomo del primo passo sulla luna, a dirci che l’umanità avviava la sua inesplorata missione verso l’infinito.

Da Mosè, l’israelita chiamato da Dio a guidare il suo popolo verso la terra promessa (bastò stendere il bastone per fendere le acque e aprire la strada verso la meta) al bib bip che aprì l’era dei viaggi ai  mondi sconosciuti del creato.

Non tutto il mondo, nel 1957, guardò all’insù, intento, com’era, nel pieno dell’esodo di massa di tanti nostri concittadini verso il nord, a vivere la perigliosa vita di novelli israeliti tra popoli spesso ostili e lontani dalle loro tradizioni storiche e umane. E tra di essi, fu una donna emigrata a vivere l’esperienza più dura e sconosciuta per cui oggi raccontiamo la sua storia.

Proveniente dalla Valtellina, la valle tanto amena quanto misera del primo dopoguerra italiano, si installò, al seguito del marito, in una modesta casetta di legno a Niederglatt, il villaggio tanto adiacente al nuovo aeroporto, da far sì che ad ogni decollo la dimora tremasse come nel bel mezzo di un terremoto. Per lui, i turni di lavoro alle acciaierie, tanto duri da non permettere altro che un pasto frugale ed il liberatorio riposo nel sonno della notte. Per lei, 10 e più ore di lavoro ad avvolgere delle strane matasse – un tanto al pezzo – dopo un breve stage in cui aveva appreso il pur elementare e manuale mestiere. Per alcuni anni, sino al raggiungimento del diritto domiciliare, un pargolo, nascosto nell’androne, si muoveva tra il lettone in cui condivideva il calore e l’odore dei corpi dei suoi genitori e la cucinetta con la stufa a legna o carbone, a cui si avvicinava per infilare i piedini nel forno perché potessero godere del suo tepore in quelle lunghe notti invernali di quel gelido biennio.

Nulla fu permesso al pargolo e per un tempo che a lui, piccolo e indifeso fanciullo, sarà parso come una maledizione del suo amaro destino.

Non il pianto a liberare il suo triste essere, né un grido di gioia inaspettato per non so che, forse il dono di un mandarino, una mela, i cioccolatini ricevuti in omaggio dal padre in fabbrica nel corso delle celebrazioni della cinquantennale fondazione. Cercò, talvolta, il piccolo, di sorprendere la madre ed uscire, vincendo il terrore per il cigolio della porta, sostenuta, evidentemente, da una arrugginita ferraglia, verso l’ignoto del mondo attorno, scoprendo le brume che avvolgevano il paesaggio in quel tempo di tardo autunno, e sbiancando, vieppiù, al gelo della bise (vento gelido del Nord) che gli sarà apparsa come il cattivo diavolo delle fiabe, raccontato  alla “spero in Dio” dalla madre nei brevi periodi di quiete.

La madre raggiunse il piccolo oltre l’aiuola ove aveva coltivato nella passata primavera, qualche pomodoro e dei cespi di verde e batavia lattuga.

Alcuni passanti, forse conterranei della casa accanto, lo stavano accarezzando parlandogli in uno strano linguaggio a lui sconosciuto, talché li osservava come forse solo il grande Cristoforo Colombo guardò a quei sciagurati amerindi usciti dalla radura, il linguaggio alieno e i visi sconvolti dalla paura.

È la fine, pensò la donna, pur tuttavia accolta dai passanti con il sorriso di chi sa cosa stava accadendo nella lignea dimora accanto. Una conversazione, pur farraginosa per la scarsa conoscenza dello Schweizerdeutsch da parte della madre, per comprendere che nulla di male sarebbe accaduto al figlioletto.

Storia di un bimbo dal destino ingrato. A cui non era permesso di avere il libretto nero su cui scarabocchiare le fantasie della nascente ragione, o l’opuscolo con le figurine di gatto Silvestro e Titty, il topolino che cerca di sfuggire al baffuto, e lui a tifare  perché Speedy  possa evitare la cattura, come per tanti anni, chi scrive, sognò, che almeno in una occasione, Toro Seduto avesse la meglio sul viso pallido colpevole delle sue storiche sciagure.

Ma l’eroina fu, come quasi sempre, una madre. Una donna dell’emigrazione nel tempo di un bip. E questa è un’altra storia.

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