A scoprirli uno studio dell’Accademia cinese delle Scienze di Shanghai
Uno studio pubblicato sulla rivista Nature fa luce sui meccanismi genetici alla base di un sano invecchiamento. Condotto dall’Accademia cinese delle Scienze di Shanghai, lo studio riveste una notevole importanza considerato che l’età è il principale fattore di rischio per molte malattie, come quelle neurodegenerative e il cancro.
A scoprire i geni che aiutano ad invecchiare in buona salute si è arrivati tramite una ricerca condotta sul verme Caenorhabditis elegans, lungo appena un millimetro e già protagonista di moltissime scoperte della genetica.
Osservando questo minuscolo verme, i ricercatori guidati da Shi-Qing Cai, hanno osservato il processo di invecchiamento, scoprendo che ogni individuo invecchia con un ritmo diverso sia in termini di durata della vita, che anche per quanto riguarda il declino della capacità riproduttiva e di movimento.
I ricercatori hanno così identificato un gene-regista che produce una molecola collegata a sua volta con i neuroni sensibili a messaggeri biochimici importanti, come la serotonina, legata all’umore, e la dopamina, che agisce sia sull’umore che su funzioni vitali come la frequenza del battito cardiaco. Ora, resta da vedere se questa importante molecola gioca lo stesso ruolo anche nell’uomo. Già qualche mese fa, lo stesso Caenorhabditis elegans, uno dei modelli animali più usati in biologia, era stato al centro di un’altra ricerca sui motivi dell’invecchiamento, ricerca dalla quale era emerso che a promuovere lo stato di salute nei giovani vermi, ma anche il loro invecchiamento, sono alcuni geni coinvolti nell’autofagia, grazie alla quale le cellule si liberano delle scorie ,grazie all’insieme dei meccanismi che consentono il ricambio dei componenti del citoplasma cellulare e la rimozione degli organelli non più funzionali o danneggiati.
L’autofagia è cruciale per il corretto svolgimento di un intero ciclo di vita cellulare, quindi è uno dei processi più critici per la sopravvivenza delle cellule. “Molte malattie neurodegenerative, tra cui Alzheimer, Parkinson e corea di Huntington sono associate a un cattivo funzionamento dell’autofagia”, ha spiegato Jonathan Byrne, coautore dello studio.
“È quindi possibile che questi geni per l’autofagia possano essere un buon modo per preservare l’integrità neuronale in questi casi”.