C’è qualcosa di incomprensibile al pensiero che esista la possibilità di poter essere uccisi da chi dovrebbe tutelarci e garantire quiete pubblica secondo gli ordini dello Stato. Quando poi assistiamo a vicende come quelle di George Floyd, per citare l’evento di cronaca recente, ma anche le vicende di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi in Italia, viene da domandarsi se parliamo di difensori di cittadini o di boia legalizzati. Pare che quello che sia successo a George Floyd a Minneapolis, fermato, picchiato e soffocato senza alcuna via di scampo né pietà dall’agente di polizia Derek Chauvin, sia una sorta di routine per le strade americane, dove se fai parte di una qualche minoranza – e gli afroamericani sono ancora considerati tali – rischi la vita per un semplice controllo.
Nessuno ha sentito Floyd che implorava aiuto, nessuno lo ha aiutato mentre incastrato con la testa sotto il ginocchio di un agente ha cessato di respirare. Nessuno lo ha ascoltato mentre moriva, ma in tanti hanno visto il video di quei momenti crudeli diffuso sulla rete e che ha scatenato una serie di rivolte che stanno scuotendo l’America. Da giorni si susseguono disordini che hanno costretto il coprifuoco in 40 città, con la Guardia nazionale mobilitata in 15 Stati. Sono circa quattromila le persone arrestate durante le manifestazioni e i disordini sono tali che il presidente Donald Trump è stato condotto in un bunker sotterraneo per tutelarlo. Sul suo profilo Twitter alle minacce risponde con uno degli slogan più noti nell’ambiente della destra di fine anni ’60, usato dal candidato presidenziale Richard Nixon e da Ronald Reagan, all’epoca governatore della California: “Ordine e legge”; nello stesso tempo non ha esitato di avvertire che sarà impiegato l’intervento dell’esercito se necessario.
È giustizia che vogliono i manifestanti americani, ma aver licenziato i quattro poliziotti e autori della morte di Floyd e il fatto che l’esecutore materiale, incriminato di omicidio di terzo grado e di omicidio colposo di secondo grado comparirà l’8 giugno in tribunale per rispondere alle accuse, non renderà di certo la giustizia che Floyd e tutti quelli che prima di lui hanno ricevuto lo stesso trattamento meritano. Lo spiega molto bene Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che annovera motivazioni storiche per quel che è accaduto a Minneapolis, tra le quali la ragione storica chiamata «Racial profiling», cioè “profilazione razziale”. Pare che questo fenomeno sia da sempre presente non si riesce a sradicare nel corpo di polizia statunitense e si riferisce al peso decisivo di fattori razziali o etnici nel determinare l’azione o reazione da parte delle forze dell’ordine nei confronti di un individuo.
Noury fa semplici ma esplicativi esempi: “se è una persona bianca che ha le mani in tasca ha freddo, se ad avere le mani in tasca è una persona di colore allora sta nascondendo una pistola. O ancora una persona bianca che corre sull’autostrada è in ritardo a una riunione di lavoro. Se a correre invece è una persona di colore sta fuggendo dopo aver compiuto una rapina”. È questo atteggiamento che deve essere attaccato e sradicato, ma finché si inneggerà a “Ordine e Legge”, dove l’ordine è solo da eseguire e la legge permetterà tali omicidi ingiustificati, sarà difficile trovare davvero giustizia.