Vi sono momenti in cui accadano fatti drammatici destinati a incidere profondamente nel corso della vita di ognuno e sino al suo compimento. È accaduto a tanti. Improvvisamente. Inatteso. Come lo è un violento temporale in una torrida giornata d’estate. A me, alpinista dilettante, è toccato spesso nelle alte orobie della mia Valtellina. Ti avvii che non è ancora l’alba verso la valle del Livrio oltre gli alpeggi del lago venina e già scorgi il cono a forma panettone della vetta del Corno Stella. La giornata è terza, arricchita, ai due mila metri, da quella frescura che è quasi un invito al corpo a accelerare il passo verso la meta. Una pausa qua è là, tanto per riprendere fiato, bere un bel sorso della mistura vino-caffè preparata da mamma Nilde, osservare l’ incantevole paesaggio che la natura ha forgiato nel corso dei millenni per volontà del Supremo. Non lo aspetti. Eppure, il nuvolone appare all’improvviso e attraversa la valle quasi a sfiorarti. È il disegno premonitore delle saette accompagnate dai chicchi di grandine grossi come le biglie con cui giocavi da infante nel corso della tua spensierata giovinezza. Cerchi riparo in un androne tra le rocce con il terrore che ti assale appena scorgi più in là l’impatto del fulmine sull’ultimo arbusto che l’alta natura della valle ha concesso. In quegli attimi ti sorprendi ad assistere a un film, lo scorrere della vita sin lì vissuta, le gioie, i patimenti, le ansie dell’ attesa, il sorriso di tua madre, le forti mani del babbo che ti accompagnano verso l’alpe Prenzera, l’abbraccio di Etta, la sorella tanto amata con cui eri solito passare le ore in attesa del ritorno dei genitori dal lavoro dei campi.
Accadde a me, come ho detto, negli anni del forte vigore. È successo di nuovo in una fatale giornata del tardo autunno romano. Percepivo da tempo qualcosa di strano in un corpo allenato a salire, con la sua Coppi, verso i ripidi passi del Satteleg o del klausen per poi scendere in picchiata verso il lago dei quattro cantoni. Momenti in cui mi liberavo dai pensieri romani della cattiva politica e andavo alla ricerca della mia libertà. Da tanti mesi non mi era più possibile. Chissà?, l’ incombente vecchiaia, pensavo.
È il sedici Dicembre dell’anno che fu. Già pensi a come passerai questa fine del mese allietato dall’affetto dei tuoi cari. Con Ursula, tua moglie e compagna, un po’ brontolona e che ti accoglie ogni fine settimana in trepida attesa per darti quello che più è prezioso: l’affetto e un sentimento di gioia e d’amore. E una visita ai parenti nella tua Valtellina. A tua madre, di anni novanta più cinque, un po’ malandata, ma che pensa ancora e ogni giorno al suo Gianni lontano. A Etta, così premurosa e severa, se non mi faccio sentire come si usa tra persone che si vogliono bene. Alle nipoti, e ai pro nipoti, ai parenti vicini e lontani. Un’ immane fatica a percorre i trecento metri verso il Pantheon dei cesari per effettuare un normale controllo sanguigno dietro consiglio del medico dell’infermeria del parlamento. Nel tornare verso il transatlantico, il luogo del chiacchiericcio e dei passi perduti della camera, conto i passi. Tanto è il peso del corpo mio su quei piedi allenati a ben altre imprese. Mi accascio in sala lettura, sconvolto e aggredito da brividi di freddo e sudore.
Qualcuno si accorge. Ancora pochi minuti e mi trovo accasciato sul sedile di un taxi che mi porta, accompagnato dal medico amico, verso il policlinico Agostino Gemelli. Controlli e ancora controlli. Di ogni tipo e intensità. Accompagnati dai giudizi severi dei professori curanti. È in quei giorni che scorre la vita vissuta. Sei là, in un lettino più solo che mai. Anche se, poco lontano, scorgi un degente colpito dallo stesso tuo male, e una donna, sua moglie, presumo, che lo assiste con lo sguardo che solo una donna sa dare. Rivedo mia madre nel mentre accarezza l’infante nell’ultimo abbraccio della tiepida sera. Il volto del padre. Il villaggio natio, su cui veglia la chiesa del santo Vittore eretta dagli uomini antichi su un picco di roccia a strapiombo sul Livrio. E tutto mi scorre: una già lunga vita racchiusa in un rapido zoom. Forse, tu pensi, è giunta la tua ultima ora. Macchè! L’accaduto è serio. Meriterà pazienza e attesa. Il cammino continua, almeno io spero. Il 24 dicembre, sempre dell’anno che fu, abbandono il Gemelli e raggiungo Zurigo. Mi attende Ursula. Un abbraccio commosso e senza parole. Auguri, miei cari!