Con i mille delegati alla Convention del partito democratico a Roma
Lungo tutto il viaggio ho pensato a tante cose. Una riflessione sulla mia lunga vita politica fatta di gioie e sogni spezzati, notti insonni a vergare documenti in preparazione di particolari giornate politiche o parlamentari, incontri, mesti addii a compagni e compagne che non ce l’hanno fatta, grandi amicizie nate nella comune convinzione di poter cambiare il mondo, senza accorgersi che il mondo cambiava noi e molte volte non in meglio, cattiverie che non ti aspetti, affermazioni di affetto e stima. Maledetto viaggio, da sembrarti troppo lungo per resistere alla triste nostalgia dei ricordi. Fortuna che il gracchiare della voce in sottofondo annuncia l’arrivo del Freccia Rossa alla Termini.
Scaccio i tristi pensieri nell’abbraccio alla folla della città eterna che riempie la grande piazza antistante la stazione, in attesa, chissà?, di ripartire dopo alcune ore di svago nell’Urbe in cui hai respirato il soffio della storia millenaria dei Cesari e dei Papi.
È già tardi. E da tempo, troppo tempo, mi sento stanco oltre ogni misura per questa mia vita partecipativa da cui non riesco a staccarmi, tanto è resistente quel filo d’Arianna che mi accompagna, forse per sempre, lungo la strada che io scelsi di percorrere nel tempo della folle e straordinaria utopia di libertà e uguaglianza. Allora, splendettero le luci dei grandi ad indicarci il cammino dei giusti, in prima fila, Nelson Mandela e Martin Luther King.
La mattina dopo mi aspetta la Convenzione del Partito Democratico all’Ergife, nel grande salone in cui si tenne la Conferenza mondiale degli italiani nel mondo e vissi l’affetto che tengo eternamente stretto in un cantuccio del mio cuore.
Mi avvio verso piazza Barberini sotto la fredda pioggerellina del primo mattino di febbraio che inumidisce il vecchio e sdrucito mantello, tanto pesante da sembrarti una corazza d’acciaio racchiusa a imprigionare le tue stanche e gracili ossa.
Ecco la Metro. L’interminabile scala mobile scende in profondità, da sembrarti la spelonca delle Foibe ove perirono centinaia di miserabili italo istriani in fuga dalla bieca vendetta dei vincitori titini. Una storia che riempie di vergogna i vincitori di allora e su cui sarebbe opportuno, riaccendendo la memoria, stendere un velo di pudore sulla mancanza di solidarietà umana e civile con cui vennero accolti i profughi della terra istriana nell’Italia democratica del dopoguerra.
Un breve tratto in bus e sono al Salone dell’Ergife.
Mille e più delegati convenuti da ogni parte del nostro Paese danno il senso ad un impegno, ad una passione che resiste agli sconvolgimenti della stagione politica dominata dal “Pret-à-porter” quotidiano: la presunta difesa dei confini nazionali dall’assalto di non si sa chi, l’astio verso le democrazie continentali (Francia e Germania, in prima fila) indicate come colpevoli dei mali storici della nostra Patria, la chiusura dei centri di accoglienza ove coabitano i diversi a cui riservare gli stessi trattamenti che milioni di italiani (sessanta milioni in cento cinquanta anni) subirono nei secoli oscuri dell’esodo di massa verso le terre del mondo.
Rivedi il bolzanino un po’ toton che ha abbandonato gli sci all’alpe per una full immersion di passione partecipativa, il siculo sanguigno, il veneto, da sempre ciacolon, quei piemontesi che non hanno mai nascosto l’orgoglio della stirpe dei Savoia,i padani lombardo-emiliani dal fare pragmatico di chi è abituato a verificare in progress lo scorrere del tempo per non mancare all’ultimo appuntamento del dovere quotidiano.
Tutti all’ascolto dei tre candidati chiamati a cambiare le sorti del Partito democratico per reggere alle sfide del tempo che viviamo. Nicola Zingaretti, dalla parlata un po’ così, da borgataro istruito; Maurizio Martina, ovverosia, sono di Bergamo, molti fatti e poche parole; e poi, Roberto Giachetti, il radicale che non ha dimenticato le origini e l’insegnamento intransigente di un certo Pannella.
Mi chiedo quali possano essere i pensieri degli oltre mille delegati di questa nostra Italia, convenuti a Roma, a loro spese, nella gelida mattina del febbraio 2019, per partecipare ad un rito, forse di altri tempi.
O forse no. Protagonisti, i più anziani, o eredi, i giovani, di una tradizione partecipativa e popolare fondata sull’ottimismo della ragione dei semplici e dei buoni.
Fiammelle di umanità che resistono alla gelata del tempo che viviamo. Tornerà la primavera e ci sarà ancora bisogno di loro.