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19 April 2024
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STORIE di Gianni Farina

L’inno all’amicizia che non conosce confini

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Il magico fluido di un sentimento dell’essere umano

Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita, non ho risposte per i tuoi dubbi e timori, posso soltanto ascoltarli e dividerli con te.

Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro,però quando serve starò vicino a te.

Non posso evitarti di precipitare.  Solamente posso offrirti la mia mano perché ti sostenga e non cada.

La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo non sono i miei, però gioisco sinceramente quando ti vedo felice.

Non giudico le decisioni che prendi nella vita, mi limito ad appoggiarti, a stimolarti e aiutarti se me lo chiedi.

Non posso tracciare limiti dentro i quali devi muoverti, però posso offrirti lo spazio necessario per crescere.

Non posso evitare la tua sofferenza quando qualche pena ti tocca il cuore, però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo. Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere, solamente posso volerli come sei ed essere tuo amico.

In questo giorno pensavo a qualcuno che mi fosse amico, in quel momento sei apparso tu.

Non sei né sopra, né sotto, né in mezzo, non sei né in testa né alla fine della lista.

Non sei né il numero uno né il numero finale e tanto meno ho la pretesa di essere io il primo, il secondo o il terzo della tua lista.  Basta che tu mi voglia come tuo amico. Poi ho capito che siamo veramente amici.

Ho fatto quello che farebbe qualsiasi amico: ho pregato e ho ringraziato Dio per te.

Grazie per essermi amico.

La poesia “Amicizia”, di autore anonimo, forse di Jorge Luis Borges, declamata da Flavio Insinna per l’amico Fabrizio Frizzi scomparso.

Versi che commuovono in momenti tristi e solenni di ogni vita perduta.

Ricordo Mario, quel giovane di Longarone con cui condividevo la camera del riposo notturno nel dormitorio del cantiere ai primi anni sessanta nella terra dei Grigioni.

Lui elettricista alla nuova esperienza oltre i confini della sua provincia, io giovane tecnico entusiasta di correre la prima avventura professionale fuori dalla Valtellina.

Due montanari che, nel corso del racconto della loro ancora breve esperienza di vita, scoprivano destini comuni.

Le origini contadine, le famiglie povere, ma che nella povertà erano ricche di grandi e forti valori: l’onestà, l’amore verso la loro terra, l’orgoglio di aver servito il tricolore nel racconto dei nonni sin dalla grande guerra patriottica del 15-18 e la lotta per riscattare la bandiera della Patria nella resistenza del 44-45, l’emigrazione come scelta obbligata per sfuggire alla miseria di una terra povera e ingrata.

Ti ascoltavo, Mario, anche quando mi raccontavi il tuo primo affetto per Gabriella, la fanciulla del casolare accanto a cui dedicavi un cuoricino scolpendolo sul ghiaccio della finestra formatosi nel corso del gelido mese invernale. Ti ascoltavo mentre il racconto andava alle peripezie del viaggio quotidiano verso Belluno per frequentare la scuola professionale che ti avrebbe introdotto ai segreti dell’energia prodotta dal flusso forzato delle acque del monte Toc.

Il solo di tre fratelli e due sorelle a poterlo fare. Perché per tutti gli altri, non c’era, negli anni cinquanta-sessanta, che il duro lavoro della campagna e, più tardi, dell’emigrazione.

Ti ascoltavo quando mi raccontavi del sentimento per Gabriella  rafforzatosi sino a divenire amore e come tu la ricordassi ogni sera prima di abbandonare il tuo corpo, stanco per il gravoso impegno quotidiano, al sonno liberatore. Talvolta volevi che io leggessi quelle sue lettere minute scritte con il rigo perché si potesse occupare ogni spazio per esprimere più a lungo il sentimento di attaccamento e di gioia.

Ti ascoltavo anche perché la tua storia era la mia da farci sembrare fratelli.

All’alba del 10 ottobre del ’63 il gracchiare di un transistor annunciò la fine del villaggio Longarone e dei suoi abitanti.

Udìi l’urlo disperato di Mario. Ne vidi gli occhi sbarrati. Ascoltai l’implorazione della fine. Lo portarono via ed io nulla più seppi di lui se non che, in quella immane tragedia, sarebbe rimasto solo a piangere i cari a cui non avrebbe mai più potuto portare nemmeno un fiore sulle  macerie del villaggio divenute landa e fossa comune. Mi si disse in seguito, qualche anno dopo, che egli non sopravvisse all’immondo destino.

Un giorno, forse,  verrò a trovarti, per parlare al tuo spirito che vaga nella pianura ove si alzano le fiammelle dei tuoi cari e leggerti, commosso, la poesia che porta la firma del grande poeta anonimo  che scrisse l’inno all’amicizia perché sapeva amare.

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