Fu il panino a mostrare la prima novità agli emigrati italiani arrivati in Svizzera negli anni Sessanta. Per chi proveniva dalle campagne e da un mondo provinciale clerico-operaio, la Confederazione Elvetica apparve come l’Eden, un modello invidiato di società opulenta, laica, della democrazia diretta, della pace sociale e religiosa, dell’ordine, della precisione, della salvaguardia del verde, degli alti salari, della «formula magica» che vedeva socialisti, liberali e democristiani governare a Berna, nei Cantoni e nelle città. La sorpresa iniziale degli stranieri giunti sul territorio elvetico per sfuggire alla fame e alla mancanza di lavoro non fu l’attrattiva di luoghi ameni, della televisione a colori, delle cabine telefoniche nelle piazze. Non fu neppure la disponibilità a facili approcci delle ragazze del posto o le luci abbaglianti dei centri commerciali, dei grandi supermercati che stavano sorgendo un po’ ovunque. La scoperta fu un prodotto alimentare, bislungo, di circa venti centimetri, diviso in due parti uguali, composte da pasta cotta di farina, acqua, grano, sale e lievito, l’una sovrapposta all’altra, con in mezzo qualche fettina di mortadella, di prosciutto, di salame e di formaggio, oppure riempite, più modestamente, con cetrioli, pomodori e qualche foglia di insalata.
Il toast, la pagnotta farcita di affettato e di stracchino erano conosciuti anche in Italia, soprattutto in occasione di scampagnate e gite, raramente come merenda che nelle famiglie operaie consisteva in una fetta di pane con la marmellata. Ma il sandwich in terra elvetica aveva ben altra funzione e importanza costituendo il pasto di mezzogiorno per eccellenza, consumato da una moltitudine incredibile di persone. Bastava andare davanti ad una qualunque fabbrica a fine mattinata e accovacciati per terra, seduti sui muretti o panchine di pietra, o semplicemente in piedi davanti ad un albero o a un cartellone pubblicitario, operai e impiegati d’ambo i sessi e d’ogni età sgranocchiano il quotidiano nutrimento…a la carta: il panino appunto. C’era anche chi si accontentava di una carota, di una mela o di una banana.
Lo stupore derivava da più di un motivo: innanzi tutto colletti bianchi e tute blu gozzovigliavano, si fa per dire, allegramente insieme, superando barriere di classe e di portafoglio. Poi, la frugalità del vitto; nella patria delle vacche grasse, degli alti stipendi quel popolo lavoratore, divorando una frutta o un panino, sembrava patisse la fame, non spinto da necessità economica ma dalla ristrettezza del tempo. La pausa di mezzogiorno non durava più di un’ora. L’aspetto più sconcertante era che si abbandonava, quello che veniva considerato un rito sacro: la tavolata domestica, il pranzo con tutti i membri della famiglia seduti intorno al desco e guai se mancava qualcuno! Il dato generale confermava una scelta precisa: il desinare, non a casa ma presso i cantieri, gli opifici, gli stabilimenti, gli uffici, o, nelle migliori delle ipotesi, nelle cantine aziendali. Ciò rappresentava senz’altro un fenomeno inusuale per chi era abituato, sin dalla più tenera età, a desinare tra le mura domestiche. Un momento in cui s’introduceva una pausa, un intervallo, una sospensione, una discontinuità, come si direbbe oggi, rispetto alla durezza, alla fatica e spesso alla alienazione della giornata lavorativa. Gli affetti più cari facevano dimenticare, per un paio di ore, la catena di montaggio, lo sfruttamento, il cottimo, il grigiore della scrivania, il freddo dei cantieri. Il convivio casareccio si trasformava, anche, in un grande libro aperto della storia, quella contemporanea che non insegnavano a scuola: gli eroi della Resistenza contro il nazifascismo. Vi si rispecchiavano il valore, la laicità della famiglia, il suo essere nucleo fondamentale di una aggregazione più ampia, unita dai principi della democrazia, della libertà, della giustizia sociale. Si cimentava la volontà di riscatto e di emancipazione di uomini che non avendo potuto studiare trasformavano la propria abitazione in scuola popolare, di autoformazione e liberazione umana. Ma era anche condividere il piacere, almeno la domenica, di gustare piatti prelibati preparati con cura da mani amorevoli. Più importante del cibo, era l’atmosfera che si creava intorno al tavolo, il dialogo, la risata, il commento sui fatti più salienti della giornata, il guardarsi negli occhi e il volersi bene. L’apoteosi mangereccia arrivava a Pasqua e a Natale, per le prime comunioni, le cresime. Il panino ha cancellato tutto questo: la liturgia sana degli affetti familiari, la tavola imbandita come luogo di unità, di riconoscimento, di identità; il pranzo come occasione di conferma dei vincoli e dei sentimenti di appartenenza e di amore.