Negli ultimi settant’anni quadruplicate le zone con bassi livello di ossigeno
Cambiamento climatico, utilizzo dei combustibili fossili e inquinamento industriale: sono queste le principali cause dell’espansione delle aree marine carenti di ossigeno e della conseguente compromissione della vita degli organismi acquatici. A lanciare l’allarme uno studio condotto dai ricercatori del Global Ocean Oxygen Network (creato nel 2016 dalla Commissione oceanografica intergovernativa delle Nazioni Unite) e guidato da Denise Breitburg dell’istituto statunitense dello Smithsonian Environmental Research Center.
La ricerca, riportata dal Guardian e pubblicata sulla rivista Science, evidenzia che dal 1950 le ‘zone morte’, ovvero le aree dove la concentrazione dell’ossigeno, elemento fondamentale per la vita, è scesa a zero o quasi, sono quadruplicate negli oceani e si sono moltiplicate di dieci volte nelle acque costiere. In totale, dal 1950 a oggi, le acque degli oceani hanno perso il 2 per cento del loro ossigeno. Nella nuova analisi, fra le più complete per l’esame di aree e stati, viene rimarcato come lungo le coste che vanno dagli Stati Uniti all’Europa e dall’Asia all’Australia, oggi esistano 500 zone prive di ossigeno: settant’anni fa erano meno di 50.
Considerato che la maggior parte delle creature marine non possono sopravvivere in acque povere di ossigeno, è possibile che in futuro moltissime specie si estinguano, una prospettiva molto dannosa anche per le centinaia di milioni di persone la cui vita dipende dall’uso delle risorse oceaniche. Nelle cosiddette ‘zone morte’ degli oceani aumenta la mortalità dei pesci e degli organismi marini.
In queste aree l’ossigeno scende a livelli talmente bassi che molti animali soffocano e muoiono. I pesci che sopravvivono evitano queste zone e vedono il proprio habitat restringersi. La carenza di ossigeno può inoltre innescare il rilascio di pericolose sostanze chimiche da parte di microbi che proliferano in queste condizioni e poiché solo alcune specie riescono a crescere in tale ambiente, la biodiversità complessiva precipita. Si stima che più di 500 milioni di persone dipendano dalla pesca, soprattutto nei paesi più poveri, e che il settore offra lavoro a 350 milioni di persone.
Se le cosiddette ‘zone morte’, quelle con pochissimo ossigeno, dovessero aumentare, questi posti di lavoro potrebbero essere a rischio. Tra le cause principali dell’espansione di tali zone c’è, come anticipato, il riscaldamento globale provocato dall’utilizzo di combustibili fossili. Acque più calde, causate dal riscaldamento globale, trattengono meno ossigeno e accelerano il metabolismo degli organismi marini che respirano ad un ritmo maggiore e per questo consumano l’ossigeno più velocemente.
Oltre al riscaldamento globale bisogna considerare anche gli effetti dell’eutrofizzazione, ovvero l’eccesso di sostanze chimiche nutritive per le alghe riversate negli oceani dalle persone: tra queste sostanze l’azoto, il fosforo e lo zolfo, che fanno crescere in grande abbondanza le piante marine, la cui quantità eccessiva favorisce lo sviluppo di batteri che consumano l’ossigeno.
Le zone costiere, compresi gli estuari dei fiumi, sono minacciate invece dai fertilizzanti e dalle acque fognarie che vengono scaricate in mare. L’inquinamento da liquami, letami e fertilizzanti facilita la nascita di alghe che, quando si decompongono, consumano l’ossigeno. Per Denise Breitburg, coordinatrice dello studio ed ecologa marina, la situazione ‘è critica’: “L’ossigeno è fondamentale per la vita nei mari, il declino della sua presenza nelle acque è tra gli effetti più gravi delle attività umane sull’ambiente. Fermare il cambiamento climatico richiede uno sforzo globale, ma anche iniziative locali possono aiutare a diminuire la deossigenazione causata dal rilascio di sostanze nutritive per le alghe”. Anche per Kirsten Isensee, della Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco, “la deossigenazione dell’oceano si sta verificando in tutto il mondo a causa dell’impronta umana”.