Minivocabolario di Paolo Tebaldi
Con il termine paradiso si indica un luogo fantastico, sereno, privo di nubi, conflitti, dissensi, non sottoposto al trascorrere del tempo, dove regnano pace, amore e felicità. La parola proviene dal sanscito paradesha, “paese supremo“, le cui derivazioni ebraica pardes e greca paràdeison richiamano l’immagine di un parco o giardino.
Senofonte, scrittore ateniese vissuto tra il 300 e 400 a.C., usava questo vocabolo riferendosi alla residenza imperiale persiana, simbolo del potere ordinatore, cosmetico del sovrano, contrapposto al resto del mondo (caos). Veniva individuato in zone dell’altopiano e di agricolture pluviali, con vegetazione lussureggiante, in forte contrasto con i terreni circostanti semi aridi e abbandonati a se stessi, che si diffusero sotto i primi imperatori achemenidi e da cui trasse origine la leggenda di un delizioso, beato empireo terrestre.
L’accezione attuale di paradiso, intesa come cielo, è debitrice del greco paràdeisos, usato nella Bibbia dei Settanta, per indicare il giardino dell’Eden.
Secondo la concezione teologica cristiana, «è il luogo dell’oltretomba in cui le anime dei giusti godono di una beatitudine perfetta ed eterna conferita da Dio per l’azione della sua grazia che li rende così degni del premio per il loro comportamento terreno» (Dizionario della Lingua italiana UTET).
Il paradiso è, con l’inferno e il purgatorio, uno dei tre stati in cui si vive dopo la morte, in unione definitiva con Dio. E’ quindi la più profonda delle aspirazioni dell’uomo conducendolo per sempre verso la felicità. Secondo l’esegesi ebraica si narra di un fiume dai quattro bracci e si descrive il paradiso su una montagna di pietre preziose, al cui centro si erge l’albero della conoscenza del bene e del male e dove potranno abitare gli uomini che hanno scelto un’esistenza di virtù.
Il paradiso islamico o Janna, è la “dimora finale“, del “timorato di Dio“. Secondo il versetto 35 della sura coranica (XIII), la descrizione vede «i beati in giardini di delizie, con un calice di silor, limpidissimo, chiaro, delizioso tra fanciulle modeste, di sguardo bellissimo, di occhi come bianche perle celate. Per l’eternità saranno fatti circolare vasi d’oro e coppe. I „timorati di Dio“ staranno in un luogo sicuro, tra giardini e fontane, rivestiti di seta e di broccato. Sui loro volti si vedrà un luminoso fiorire della gloria e si abbevereranno nella stessa fonte dei Cherubini».
Nella tradizione induista esistono paradisi (svarga) o mondi celesti diversi, in cui ogni dio accoglie i fedeli che hanno accumulato karma positivo e che li hanno adorati. Il paradiso è inteso come una tappa intermedia differente dalla liberazione o moksha.
Una eccelsa, altissima rappresentazione poetica del paradiso la troviamo nella Divina Commedia di Dante Alighieri, una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi.
Un altro paradiso perduto, non quello dal quale furono cacciati Adamo ed Eva, per il loro peccato originale, è l’osteria storica veneziana del quartiere di Canneregio, nata negli anni Ottanta per iniziativa di un gruppo di studenti universitari. Una delle caratteristiche di questo locale sui generis è che «il menù cambia di giorno in giorno, in base alla disponibilità del mercato ittico di Venezia e all’estro dello chef. Le pietanze sono in genere della cucina tradizionale locale, a base di prodotti freschi e lavorati in casa. La vera specialità è il gran fritoin, una frittura di pesce deliziosa accompagnata da polenta bianca» (Wikipedia). Questa speciale locanda è famosa non solo per le sue squisitezze gastronomiche ma anche per un ricco programma di reding, spettacoli e musica dal vivo con concerti dove si esibiscono celebri cantanti internazionali.
Abbiamo diverse locuzioni riguardanti la parola in questione: Paradiso rosso, riferito all’Unione sovietica prima della sua dissoluzione, dove di rosso, in verità, c’era solo il sangue dei milioni di avversari politici, ebrei, diversi, assassinati dal regime di Stalin. C’è il Paradiso perduto (Paradise Lost), poema d’argomento biblico composto, con versi classicheggianti, da John Milton tra il 1658 e il 1663. Descrive la ribellione degli angeli, la creazione e la caduta dell’uomo, la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, la rivelazione della futura redenzione.
Il paradiso perduto è anche la disaggregazione, oggi, del focolare domestico, della famiglia tradizionale dove i genitori non sono più punti di riferimento, soggetti educativi per i figli, dove il pranzo quotidiano non è più il momento del convivio, della condivisione, del dialogo; dove le generazioni non s’incontrano, dove l’amore, il rispetto, i sentimenti edificanti sono sostituiti dall’indifferenza, dall’apatia, dal distacco.