Montreuil, Nogent sur Marne, Aubervilliers, Bobigny, Garges les Gonesse, Saint Denis: sono solo alcune delle mitiche banlieues che assediano la ville lumiere, la regina sulla Senna resa immortale dall’epopea giacobina e comunarda e in cui svettò più tardi il genio di Eiffel con la torre alzata sino a carpire l’immensità dell’azzurro oltre il secolare grigiore dei cieli bigi parigini.
Non vorrei fare della sociologia spicciola. Anche se, all’opposto, respingo il tentativo in atto di considerarla ininfluente nell’attuale stato di cose… Cinque o sei milioni di banlieusards – in treno, nel metropolitano RER o con l’auto – in marcia ogni mattina verso Parigi per soffocarla con l’abbraccio d’amore chi si riserva a chi si ama perché è fonte della vita di ognuno. E a sera di nuovo verso quei casermoni il cui squallore è pari a quello che si può notare in una megalopoli del terzo mondo.
Ho visitato Soweto a Johannesburg. Ho annusato l’acre sapore dell’abbandono e della tristezza che non ti lascia nemmeno se chiudi gli occhi e cerchi di sognare un mondo che non esiste perché sta solo nei sogni dell’imberbe che tu sei stato quando osservavi il formicolio dei primi fiocchi di neve invernali nella rincorsa dell’abbraccio alla madre terra. Certo le banlieues parigine non sono Soweto. Rappresentano, pur tuttavia, un luogo di emarginante solitudine di massa ove pullula un mondo a cui hai tolto il sogno rappresentato nel drapeau: Liberté, Egalité, Fraternité.
Nel mio soggiorno parigino ebbi più occasioni di visitare Garges. Là vivevano alcuni amici presidenti dei circoli “Amitiés Franco-italiennes”. Cubi a più piani. In ogni pianerottolo, lingue e odori diversi. E al centro una piazza brulla, rischiarata a sera da lampioni la cui luce fioca sembrava anch’essa venire da lontano come il mondo accanto. Un bistrot in cui ci appartavamo per scrivere i “Cahiers des doleances”, programmare le iniziative di protesta, gli incontri dei circoli d’amitié.
Conobbi da quelle parti una tradizionale famiglia siciliana di cui sembrami inopportuno declinare il nome. I genitori, cinque fratelli e quattro sorelle, una miriade di figli e nipoti. Dei fratelli, di lì a poco, ne rimase uno, condannato a più anni di prigione per spaccio e rapina. Gli altri, morti sotto l’effetto della droga. Una famiglia come tante altre. A cui la République aveva dato il nulla di tre parole che ognuno dei giovani aveva letto nelle miserevoli scuole della periferia urbana. Milioni di giovani come loro – magrebini, tunisini, libanesi, siriani o del lontano Mali – hanno vagato per decenni alla ricerca dell’araba felice e forse non è un caso che qualcuno possa averla trovata sotto un altro simbolo fallace e una nuova bandiera. Già. Forse, ma non solo.
Il problema della Palestina e del suo popolo sembra cancellato dalla memoria. Non ci rammentiamo più dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel folle tentativo di costruire il comunismo sulle rovine di un regime tribale e feudale; delle guerre del golfo: le due guerre irachene per dare una lezione prima e abbattere poi, il regime nazionalista e totalitario di Saddam Hussein sulla base di mistificanti e mai comprovate accuse del possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime. Del pantano siriano e libanese. Della perversa avventura libica- Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti in primis- costruita con un cinismo degno di una illimitata irresponsabilità.
Nella lotta per il controllo delle fonti di ricchezza medio-orientali l’occidente industrializzato – sovietici e Russia inclusa – hanno giocato gli uni contro gli altri. Armato e finanziato sciiti o sunniti secondo il momento e la convenienza. Un gioco al massacro in cui le vittime della lotta fratricida sono stati e sono i milioni di morti musulmani sunniti e sciiti, figli dello stesso Dio. Con in mezzo alcune comunità cristiane, la cui sola colpa è essersi trovati al centro dell’infernale cratere. Altro che guerra di civiltà. Il mostro dell’ISIS (il califfato islamico) sorge da lì. Dalle nostre colpe. Dalla nostra sete di dominio e ricchezza. Abbattiamolo!
Perché non sia meta agognata e simbolo perverso dei venti milioni di musulmani europei.
È la premessa per onorare il martirio di Valeria e delle tante vittime, di ogni religione e colore, della folle notte parigina. Per poi costruire la cultura del dialogo e della pari dignità tra i diversi, l’unica possibilità che abbiamo per preservare il futuro dell’intera umanità.