Tutti noi, deputati e senatori del parlamento appena eletto, abbiamo negli occhi la cupa atmosfera di quel 19 aprile 2013.
Un no devastante aveva da poco sotterrato le ambizioni di Romano Prodi di accedere all‘ alto colle. Più di cento dissidenti della rappresentanza del partito democratico, contravvenendo al voto dell’assemblea, avevano contrastato, nel segreto dell’urna, la scelta indicata dall’allora segretario Pier Luigi Bersani. L’aula della camera dei deputati, il luogo ove si sono svolti, dal dopo guerra in poi, i momenti più salienti della storia repubblicana, era come attonita, senza vita.
Non un cenno, un bisbiglio, un commento che facesse dire, che so?, e adesso, come ne usciamo. La stessa folta rappresentanza del movimento cinque stelle, che pur aveva condotto una forte battaglia su un loro candidato preferito, Stefano Rodotà, evidentemente sorpresa, non dimostrava il solito rumoroso e attivo protagonismo. Ho assistito, nella mia vita politica, a tanti momenti di straordinaria solennità. Vissi dalla tribuna e con le lacrime agli occhi, l’elezione di Nilde Iotti a presidente della camera. La Nilde amica e compagna di mia madre. La donna di una grande bellezza, solenne e austera- o almeno così appariva agli occhi del virgulto- nel mentre assaporava la zuppa della povera mensa paterna o accennava a cose e problemi a me incomprensibili, estranei, lontani. Ricordo una sola parola e forse, una frase. Disegnai nella mente ciò che a me di più bello appariva il mondo lì attorno. Cara Nilde, parlava sempre a lei e non a mio padre: bisogna , lottare, difendere, per sempre , la pace. L’ultimo saluto a Enrico Berlinguer, l’uomo più amato, lo statista della questione morale a cui, Sandro Pertini, rese forse il più straordinario omaggio che un presidente della repubblica abbia mai dedicato ad un suo emerito cittadino. E poi tanti altri momenti esaltanti, di gioia o dolore e sino alla mia elezione a membro del parlamento repubblicano.
Il duemila e sei è già lontano nel tempo e pur così presente nell’animo mio. Ero là, nel tempio della democrazia repubblicana. Il sogno per cui avevano combattuto i fratelli Farina sessanta anni prima riscattando il tricolore dalla vergogna e dal disonore. Peccato, disse mamma Nilde, che più non sia tra noi tuo padre. E poi mi abbracciò tenuamente nascondendo una lacrima calata a bagnare lo scialle che tante ne vide, di belle e di brutte, nel corso degli anni. Divago, ma certo non è per scordare la prima elezione di Giorgio Napolitano a presidente della repubblica il 15 maggio del 2006. Lo fermai nei corridoi del palazzo, in quelle giornate. Gli espressi la gioia di scrivere un nome. Un sì al maestro di vita chiamato a reggere il peso. La seconda elezione fu quella a cui accennavo. Preceduta dallo smarrimento e dall’accorrere al colle a chiedere lumi. Che fare? Ormai solo tu puoi dare una svolta se accetti la sfida degli anni per un altro mandato. E così fu che il vecchio saggio accettò non mancando di dire il perché e il percome di aver accettato. Lo ascoltammo, in parlamento, a elezione avvenuta e ci disse parole di fuoco, chiamandoci a rendere conto a chi ci elesse e operando, finalmente, per grandi riforme e per il bene comune.
Meno male che Giorgio c’è! È quanto esclamarono allora i potenti e tanti di noi. È quanto possiamo affermare partendo da quanto è accaduto da allora ad oggi. E forse è quanto ha pensato il presidente francese Hollande invitando il nostro presidente alle celebrazioni del settantesimo dello sbarco alleato in Normandia. Non era mai accaduto. Una prima volta che farà storia. Da Obama alla Merkel.
Da Cameron a Putin, anche lui presente e nonostante l’isolamento dovuto alle drammatiche vicende ucraine, e soprattutto grazie al riconoscimento per lo straordinario contributo dell’allora Unione sovietica alla vittori sul nazismo, non è mancato il riconoscimento allo statista italiano, alla sua alta personalità, al suo ruolo di dirigente antifascista e convinto europeista. Oggi, dopo il voto europeo, giunto a suggellare i primi risultati sulla via del rinnovamento e del cambiamento, tutti noi ci chiediamo se il presidente Napolitano, che accettò un mandato preciso e a tempo, come disse il 20 aprile 2013 nel messaggio al parlamento e alla nazione, pensi che la sua missione sia compiuta. Già si avverte nei palazzi del potere l’inizio della nuova corsa per il Quirinale. Si fanno tanti nomi. I soliti noti con qualche eccellente candidatura femminile. Ci si chiede se a eleggere il nuovo presidente dovrà essere questo parlamento oppure il prossimo dopo eventuali elezioni politiche anticipate. Tutto dipende dalla evoluzione della situazione politica generale, che è ancora molto incerta. Lo è in parlamento sulle riforme. Lo è nel paese, in termini socio economici e finanziari. Anche perché molto dipenderà dal successo che potrà avere il governo durante e dopo il semestre italiano in Europa. Difficile che in tutto questo arco di tempo il presidente del consiglio, Matteo Renzi, possa fare a meno della saggezza e dell’appoggio del Quirinale.
È quindi evidente, per il momento, non pensare a Giorgio Napolitano come al presidente della “Missione Compiuta”. Lo pensano in tanti. Lo penso anch’io. Caro presidente, ancora uno sforzo. Nella fase di cambiamento, Matteo Renzi e la sua giovane ciurma hanno ancora bisogno di te. Ne ha bisogno l’Italia, e per questo, la repubblica te ne sarà grata. Fra pochi giorni, il 29 giugno, ottantanove primavere alle tue spalle. Buona fortuna, presidente Napolitano.