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28 April 2024
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STORIE di Gianni Farina

Marco, Antonio, Sergio: il fato maligno li rapì, come a Longarone, nell’ottobre del 1963

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Ho già ricordato, nelle mie storie, la tragedia del Vajont del nove ottobre del 1963. Eravamo al culmine di uno storico boom economico, iniziato dopo il 1950, che avrebbe proiettato l’Italia fra le grandi economie europee ricostruite dopo le rovine e la disfatta della guerra.

Ovunque, nella catena alpina, dalle alpi marittime sin oltre le dolomiti, si alzavano gli sbarramenti per imprigionare le acque negli invasi, il primo passo per l’erezione delle centrali idroelettriche tanto necessarie al funzionamento delle industrie manifatturiere del nord Italia.

Energia pulita, che, diversamente dall’oro nero, (il carbone) non impregna le città metropolitane della pianura padana (Milano e Torino in primis) di una coltre grigiastra che assale i polmoni delle genti. Non era la peste provocata dall’antracite, la silicosi che avrebbe tolto la vita a centinaia di migliaia di minatori in piena gioventù, ma poco mancava.

E in effetti, le prime vittime furono i ragazzi, per i quali lo stato sociale aveva istituito le colonie marine ove far loro ritrovare l’ebbrezza del prolungato respiro nel fruscio dell’onda.

Chi scrive ebbe la gioia, a dieci anni, di scoprire l’azzurro del mare a Sestri Levante e di come il suo sguardo vagasse oltre l’orizzonte cercando un monte, una vetta, come ero solito fare tra le montagne della sua valle circondata, e forse difesa, dalle catene retiche e orobiche.

Scoprire il mare e rimanerne atterriti e affascinati.

Ci penserà poi il grande Ernest Hemingway (“il vecchio e il mare”) ad aprire gli occhi sul mormorio dell’onda. Su come è possibile parlare a se stessi su un’esile barchetta, nell’apparente silenzio di un mondo da cui cerchi di catturare il messaggio, per non perdere l’ardire di scavare nell’ignoto e onorare, al contempo, il tutto di cui ci ha donato il creato.

Divago e non so se tornare a quel 9 ottobre del 1963, l’attimo in cui la natura si ribellò ai voleri dell’uomo di assegnarle un ruolo, ad essa sconosciuto, nel corso dei passati millenni.

E fu così che prevalse in lei il disegno di una violenta vendetta.

La montagna del Toc si gettò nell’invaso per esaudire l’anelito delle acque, lassù imprigionate, di scendere alla ricerca della felicità, il loro mare.

Ogni cosa ed essere vivente vennero chiamati a condividere il lungo viaggio verso la meta. È la storia di Longarone, di Erto e di Casso, i villaggi contigui.

Ricordo Marco, o come si chiamasse, (più non ricordo) il giovane di quella disperante valle natia, mentre si appresta ad alzarsi dalla branda nella baracca del cantiere ove aveva passato le poche ore di riposo con ancora negli occhi le saette bianche madrilene guidate da Di Stefano e Puskas, il divino goleador magiaro, derubato del titolo di campione del mondo del 1954, nella finale della vergogna a Berna. Il gracchiare del transistor gli annuncia, senza ombra di dubbio, la fine di Longarone con tutti i suoi cari.  È rimasto solo.

Ricordo l’urlo, il tremolio delle mani, le ciocche di capelli dilaniati nella ricerca del come e del perché.

Lo rivedo partire verso l’ignoto e nessuno seppe più ove fosse finito il suo errare, se non in una fossa, dalla quale esalò l’anima sua per vagare nella valle alla ricerca delle persone amate come una fiammella sospinta dalla brezza della sera.

Maledetto ottobre del 1963.

Antonio, era giovane e ardito. Non ancora diciottenne, accompagnò i boscaioli nell’alta Savoia aiutandoli nel traino dei tronchi verso la segheria nel fondo della valle.

E poi tra le montagne dei grigioni a montare i tralicci per sostenere i cavi dell’alta tensione.

Arrivava lassù oltre ogni limite negato agli altri compagni d’avventura.

Un tuono, lo scroscio improvviso, l’acciaio che sfugge all’intrepida tenaglia di una mano forte e vigorosa.

Precipita al suolo senza il tempo di capire il senso di una fine che preannuncia un bieco destino, l’oblio.

Sergio, stanco della cura al bestiame, lassù, nell’alpeggio, ha cercato fortuna nella città – Zurigo – bagnata dalla Limmat e dal lago che porta il suo nome.

Niente di che. Solo ore passate a sgrassare ogni giorno più piatti e posate di quante ne possa accogliere un silo di bionde granaglie.

Talvolta, andava a cercare conforto un poco più oltre, nel vicolo che offre, la notte, attimi di lesta beltà.

Lo trovarono esamine e steso tra i rifiuti accatastati nella attigua piazzetta.   

I tre ragazzi erano nati (anch’io) nel 1941  dell’anno del giusto Nazareno. Perirono, come a Longarone, nell’ottobre del sessantatre.

Mi accompagna il loro ricordo per il tempo che verrà.

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