Srebrenica, venti anni dopo.
Quella sterminata collina ove riposano oltre ottomila vittime dell’odio razziale. Tanti capi di stato, in testa l’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, a rendere l’omaggio postumo alla comunità bosniaca colpita dal più immane genocidio post seconda guerra mondiale. È una fiumana di popolo in cerca di una stele con inciso il nome del marito, dall’amata compagna, di un figlio, una sorella, un babbo, una nonna, un parente vicino o lontano massacrato in quel vile 1995 tra il disinteresse di tanti, in prima fila i caschi blu delle Nazioni Unite.
Ancora non è stata scritta la parola conclusiva sulle responsabilità di chi compì il massacro – le bande criminali del generale serbo Ratko Mladic – e di chi, consapevolmente o non, lasciò uomini, donne e bambini al loro destino.
Effettuato il genocidio il generale si ritirò a Belgrado assieme all’amico e presidente della repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, Radovan Kardadzic. Ambedue furono protetti da una fitta rete di amicizie e complicità sino a quando, catturati, risposero dei loro delitti – crimini di guerra e genocidio – al Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia dell’Aia.
Giustizia è fatta. Forse. Non sono d’accordo le migliaia di musulmani bosniaci che hanno partecipato, sabato 11 luglio sc., alla celebrazione commemorativa. Rotto il cordone protettivo dei militi, si sono scagliati con lancio di sassi e pietre contro il presidente della repubblica serba, Vucic, venuto da Belgrado a rendere omaggio alle vittime. Le ferite sono ancora profonde perché si possa procedere verso il cammino della riconciliazione tra i popoli della ex Jugoslavia che pure vissero in pace e amicizia per quarant’anni dopo la disfatta nazista e la fine della seconda guerra mondiale. E occorreranno forti atti di coraggio da parte dei governanti, in prima fila serbi e croati, nel riconoscere le estese responsabilità che hanno portato ad oltrepassare il limite dell’odio umano. Allora, e solo allora, dalla collina di Srebrenica non udiremo più l’urlo di chi non ha più voce e aspetta solo il tempo in cui gli sarà possibile abbandonare le sue stanche ossa all’eterno riposo. Anch’io sono stato – 2007 / 2008 – in quelle martoriate terre per notificare il risveglio del processo democratico.
A Podgorica, in Montenegro, nella città martire di Sarajevo con la sua collina degli eroi, a Mostar in Herzegovina per attraversare il ponte sulla Neretva, riscostruito dopo essere stato abbattuto per dividere la comunità cattolica e musulmana. Ho attraversato colline e villaggi accompagnato da esperti di politica dei Balcani. In ogni casa, piccola o grande che fosse, il segno delle mitragliatrici a indicare il buio della notte che scese nel cuore e nell’animo di tanti bestiali protagonisti. Luglio, tempo di vacanze. Milioni di europei attraversavano le alpi e il mare, con i propri mezzi o i moderni low cost in rotta verso la Grecia dalle incantevoli isole in cui palpita il cuore della storia.
Chi ha letto l’Iliade e l’Odissea, incantato dalle eroiche vicende di Ettore il troiano e di Ulisse in viaggio verso la patria antica, è stato poi avvinto dalle letture di Socrate, Platone e Aristotele alla riscoperta delle radici del pensiero filosofico e della civiltà occidentale. I governanti dei decenni che stanno alle nostre spalle hanno evidenti e gravi responsabilità per la miserevole situazione in cui si trova attualmente la Grecia.
Ciò detto, non è possibile abbandonare la patria della DEMOCRAZIA al suo destino senza perdere – parlo dell’Europa intera – la sua stessa anima. Da un’ Unione di popoli solidali ad una accozzaglia di affaristi. Prevalga la saggezza oltre ogni possibile chiusura e rigurgito nazionalista. Intanto, continua l’afflusso dei profughi verso le coste italiane. La storia con la “S” maiuscola coglie benissimo l’attuale incapacità europea di interpretare il proprio ruolo in questo primo secolo di millennio. Il noto umanista e intellettuale, Francesco Cancellato, afferma che tra vent’anni, forse, la racconteranno così. C’era una volta l’Unione europea, un continente incapace di presidiare le proprie coste da una migrazione millenaria proveniente dall’Africa.
Una espressione geografica alla deriva tra ciò che è stata – un insieme di stati in perenne guerra tra di loro – e ciò che dovrebbe diventare, una Unione democratica di tutti i cittadini europei. Apparteniamo, e nonostante tutto, alla schiera degli ottimisti. Buone vacanze, care lettrici e cari lettori.