Non sappiamo se i costi di applicazione del federalismo fiscale – approvato la settimana scorsa definitivamente dal Senato – saranno pesanti, come dicono i (pochi) contrari, o di nessuna rilevanza, come sostengono i favorevoli. Sappiamo, però, che la riforma, voluta tenacemente dalla Lega e fatta propria dalla maggioranza e da buona parte dell’opposizione (Idv e Pd, quest’ultimo si è astenuto) è una buona legge e soprattutto necessaria per tutta una serie di considerazioni che ci apprestiamo ad esporre. Intanto, come accennato, solo l’Udc è contraria; malgrado l’astensione al Senato voglia dire contrarietà, l’aver scelto questa via sta ad indicare che anche il Pd, in buona parte, è favorevole, dunque non ci saranno referendum abrogativi, né altri ostacoli, anche perché se il lavoro maggiore è stato fatto dalla Lega, anche altri hanno contribuito con suggerimenti e proposte. Ci saranno solo i tempi tecnici di applicazione, che sono circa sette anni. Entro i primi due anni il governo è tenuto ad emanare due decreti attuativi, il primo dei quali entro un anno. Una Commissione bicamerale composta da 15 deputati e 15 senatori esprimerà un parere sui citati decreti. Poi, la macchina burocratica si metterà in moto e, appunto, al massimo entro 7 anni, la legge sarà a regime. Accenniamo sbrigativamente ai punti della riforma – autonomia di entrate e di spesa degli enti locali, fondo nazionale perequativo per gli enti con minore capacità fiscale, Roma Capitale e creazione di 9 “città metropolitane” – per mettere l’accento su alcuni concetti che possono far fare all’Italia un salto di qualità nell’utilizzazione delle tasse degli italiani. Il primo concetto è che un Comune spenderà in rapporto alle entrate che provengono dai cittadini che ne fanno parte perché una quota delle loro tasse andrà direttamente al Comune per le funzioni di sua competenza. Ne consegue un altro concetto, e cioè che l’amministrazione comunale sarà tenuta a controllare che i suoi cittadini paghino le tasse. Evadere le tasse, insomma, sarà più difficile, specie nei piccoli Comuni, quelli con qualche migliaio di abitanti, perché ognuno conosce le attività degli altri. Un altro concetto importante è che anche i cittadini, specie quelli che pagano più tasse in base alle loro attività, sono spinti ad esercitare un controllo sulla destinazione delle loro tasse, che sono i “loro” soldi. E i Comuni con poche possibilità di entrate? Scatterà il fondo nazionale perequativo, creato apposta per i piccoli agglomerati. Un
ultimo punto fondamentale della riforma è che, dovendo i Comuni contare sulle “proprie” entrate, quelle a disposizione, saranno velocizzati anche i tempi che intercorrono tra la progettazione, l’affidamento e il termine dei lavori, con un altro vantaggio: che l’amministrazione è tenuta a controllare oltre che le entrate anche le uscite, perché si tratta delle sue risorse. Ovviamente, si sa che non tutto filerà secondo gli scopi nobili della legge, ma aver introdotto
dei meccanismi di controllo e di gestione più immediati e più visibili delle risorse pubbliche è un buon punto di partenza.