Si ricomincia. Per la verità, l’attività non si è mai interrotta. Una iniziativa dietro l’altra, in un mese, l’agosto, che tutto è sembrato, tranne il periodo delle vacanze e del solleone.
Su e giù da Roma per presenziare alle riunioni straordinarie delle commissioni esteri camera e senato, permanentemente riunite a causa dei venti di guerra medio orientali e dell’est europeo. Ho vitato la noia che mi assale durante le vacanze e nei persistenti giorni di pioggia. Il sole, questo sconosciuto? Nulla è più come un tempo. Le stagioni, che la natura annunciava con i suoi secolari squilli di tromba. I primi fiocchi di neve dicembrini, da me attesi come l’amata attendeva il suo sposo emigrato. Il risveglio d’inizio primavera, che noi ragazzi accompagnavamo con il suono dei campanacci. L’estate dello svago, con l’abbandono, in un angolo della misera dimora paterna, dei libracci in cui avevo cercato, invano, verità e sapienza per l’avvenire.
E l’autunno, il tempo in cui vivevo, intensamente, la mia interiore tristezza. Novembre è stato ed è per me momento di raccoglimento e d’attesa di non so quale evento futuro. Forse un richiamo al mistero di ciò che attende ogni essere umano vivente in questo nostro mondo. “ Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”( Salvatore Quasimodo.) Già, solo i grandi vati sanno descrivere il destino di ognuno in una semplice, meravigliosa, poetica frase. O quel Luchino Visconti a cui debbo la scoperta di Venezia come il luogo dove avrei potuto vivere eternamente la mia infinita solitudine. Venezia in una giornata novembrina, con le sue calli immerse in quella grigia nebbiolina che ti avvolge sin dentro le ossa provocandoti un non so che di paura e languore. Grazie a te, caro Visconti, visitai Venezia cercando l’afflato. Mi inoltrai per canali e vicoli a sera. Un silenzio che mi parve irreale. Il rio riportava il fruscio dell’acqua come un ultimo spasmo di un’eco lontana. Ecco, mi dissi, ho trovato il luogo, lo spazio in cui vivere il tempo che il destino mi ha dato. È strano, non sono mai più tornato a Venezia. E forse è giusto così.
La vita è continua ricerca del sogno. Se lo hai realizzato, la festa è finita e nulla ti incita a dover continuare. Torniamo a noi. A questo umido agosto piovigginoso che non mi ha permesso, nelle giornate libere, di affrontare, in sella all’amica Coppi, i ripidi tornanti del Satteleg. Dieci chilometri per salire ai mille duecento del passo in cui trovi tutto il mondo delle due ruote: Il giovane. Il vecchio ancora smanioso e pimpante. Chi ancora sbuffa e asciuga il sudore. Chi è comodamente seduto all’aperto nel mentre sorseggia una bibita ambita e racconta la prodezza dell’ultima ascesa. Un tempo, lo scriba , impiegava un’oretta per raggiungere il colle con sempre negli occhi i grandi campioni del tempo che fu: il Bartali ciarliero toscano e il mitico Coppi. Fausto il suo nome, scandito per anni dai tanti che lo videro violentare, ai giri d’Italia e di Francia, le impervie montagne. Per la verità ci ho pure provato, un giorno. Mi sembrava abbellito da squarci di sole. Arrivato a metà, alla svolta del ponte che scavalca il ruscello e annuncia il tratto più duro, ho sentito le fitte ai polpacci e i muscoli duri come pezzi di pietra. Terribile apprendere che forse la festa, pur fradicia di tanto sudore, è finita. Abbandonati quei sogni di gloria ho trovato l’ardire di un po’ di passata lettura. Ho riletto il Manzoni ( I promessi sposi) dall’inizio alla fine.
I tanti vizi e le poche virtù di un’Italia che non sa e non vuole cambiare. Fra tante nefande tristezza, a Zurigo, in un giorno d’agosto, ha brillato, di luce maestosa, una stella italiana. Corri Daniele Meucci, corri. Laggiù, dopo il ponte che attraversa la Limmat, ornato dal tuo tricolore, ti attende la gloria europea e, chissà?, un giorno non molto lontano, lo squillo di olimpia che annuncia la meta.