Kreuzlingen: il saluto all’amico scomparso
Chissà perché alzarsi nel primo mattino, accecato dai raggi del sole nascente, mi dà un senso di gioia. Dura un attimo, date le poche ore di sonno notturno interrotte dai mille dormiveglia. Eppure, è un breve toccasana.
Un attimo per tornare al tempo del giovane capo cantiere. Il primo ad arrivare alla mensa per gustare il forte caffè arricchito dalla magica goccia di grappa versata da Giovanni, il cuoco veneto dalla parlata un po’ così. Comandi! Era l’intercalare di ogni sua ciacola, quasi fosse un caporale della prima guerra patriottica sul Piave di fronte al richiamo dell’ufficiale impaziente e arrogante. Un mezzo secolo alle spalle. Eppure sembra ieri. Un mese fa. L’anno scorso o un poco più. Sarebbe l’occasione per meditare sulla brevità della vita. Impossibile. Il treno per Zurigo si arresta al solito binario per accogliere i passanti in attesa di assolvere alla loro operosa giornata.
Trenta minuti e siamo alla città sulla Limmat. Scendendo per il cambio odo una voce. Un richiamo insistente. Gianni! Che piacere salutarla! Non si ricorda di me? Sono Paolo. Il figlio di Ettore. Papà mi portava con se alla Casa d’Italia alle riunioni di Partito. Già, sei proprio tu. Tu, a interrompere il dibattito con l’invito al babbo a rientrare a casa. Tanto rumorosa la richiesta da essere salutata da un’omerica risata dei presenti. Cinque brevi minuti per assaporare il dolce profumo dei ricordi. Ricordare quel piccino impaziente.
Pensare con affetto a suo padre. Un grande uomo. Di una tempra antica. La generazione di chi non ebbe paura. E reagì alla miseria del tempo partendo verso l’ignoto delle terre oltre gli oceani, o oltre le Alpi nell’Europa del nord che accoglieva braccia di lavoro per le rinascenti industrie degli anni cinquanta. Talvolta, alle riunioni partecipava anche il nonno, uso intrattenere i presenti con le storie del primo novecento a cui non tutti i presenti prestavano attenzione. Che storie sono mai queste? Pensavamo di cambiare il mondo.
E lui, nel segno dell’eternità, ha cambiato noi. In bene o in peggio, non saprei dire. Nel frattempo, il treno mi accompagna all’appuntamento di Kreuzlingen. Vado a salutare un compagno nel suo ultimo viaggio. Vincenzo, il padre di Michele Schiavone, non è più.
È stato un compagno impegnato e severo. Un uomo del sud. Tutto di un pezzo. Un amore appassionato per la sua terra e per l’Italia di cui, nelle occasioni celebrative, portava con orgoglio il tricolore, la sua bandiera.
Lo ricevetti, assieme alla moglie amata e decine di altri connazionali, in parlamento poco più di un anno fa. Quanta gioia nei suoi occhi: orgogliosi, attenti, indagatori di ogni mio dire mentre visitava –accompagnato – le sale ove è scritta la storia d’Italia. L’unità ritrovata. Il regno. La repubblica. Le vicende gloriose e drammatiche della nazione. Si attardò, commosso, alla sala della lupa, attratto dall’interesse per il racconto sugli aventiniani, i deputati che si ribellarono alla nascente dittatura dopo il delitto Matteotti. Portava, anche per l’occasione, il tricolore.
A salutarlo, nella splendida chiesa di Kreuzlingen, I suoi cari, oltre ai tanti compagni di vita accorsi da ogni dove a rendere l’estremo omaggio all’amico scomparso. Ho rivisto tanti miei compagni dei tempi gloriosi in cui l’emigrazione italiana lottava per il suo riscatto.
Sono ancora tutti lì. I capelli sul grigio chiaro per chi non presenta la canuta pelata. Il viso scarno, segnato dalle rughe che indicano il lungo cammino. Talvolta un velo di tristezza celato dall’orgoglio di chi conserva il pudore dei sentimenti profondi. Vorrei citarli tutti. Per la tristezza del momento, ma con la gioia di aver percorso con loro un lungo e appassionato cammino. Ne scorderei alcuni e ciò sarebbe grave e imperdonabile. Dirò di uno. Di uno solo. E perché possa rappresentarli tutti, lo chiamerò Ulisse.
Ulisse come l’errante omerico. Ti ricordi, quaranta anni fa? Quel giorno? Sì. Mi ricordo, caro Ulisse della nostra gioventù. Ricordo la tua saggezza. La voglia di fare. L’ottimismo che accompagnava ogni tuo atto. La coscienza di un comune destino. Ricordo il fatto. L’incontro. L’attesa. E quelli che hanno scolpito un’impronta, un segno di fratellanza e solidarietà.
Ricordo tutti i Vincenzo che hanno lasciato un buon nome. Dio li fa e poi li accompagna.