Il delitto che arrestò il disegno di rinnovamento democratico della nostra Italia
Sedici marzo del millenovecentosettantotto.
Aldo Moro, dirigente politico, guida morale e innovativa del campo cristiano democratico, immortalato nella stretta di mano con Enrico Berlinguer mentre suggella il patto per cambiare e rinnovare la nostra Patria, viene rapito in Via Fani a Roma.
La sua scorta, (cinque servitori dello stato) brutalmente annientata nel sangue che lorda la via ove si estingue la speranza italiana per un avvenire più giusto e solidale.
Da quell’istante e per 55 giorni, sino al suo assassinio, Aldo Moro fu sottoposto ad una perfida violenza morale dalle BR di Aldo Moretti, in quella prigione, “detta del popolo”, in cui si consumò il delitto più grave: la violenza cieca verso la persona a cui fu impedito qualsiasi diritto a difendere una sua pur minima dignità di fronte alla protervia di un potere assoluto e incontrollabile.
Le lettere di Moro alla sua famiglia, ai dirigenti del suo partito, in particolare a Benigno Zaccagnini, all’intera classe politica, suggellano, pur nella perdita d’espressione di un libero pensiero, la grandezza dell’uomo di fronte alla protervia del suo accusatore che appare nella sua abissale e tragica ignoranza: un aguzzino e spietato carceriere a cui è concesso un solo vero e unico diritto: la violenza cieca e oppressiva per annientare lo spirito e l’animo della vittima.
Accusa in nome del popolo, il malvagio, senza che, lo stesso, gli abbia dato o concesso un tale diritto.
Alla fine, di lui e della sua banda, non rimarrà che lo sterco dei cavalli come nella leggendaria disputa lillipuziana. Tengo, in un anfratto del mio cuore, le commoventi immagini del 27 gennaio 2018 a Zurigo: il salone affollato da una umanità convenuta all’incontro con l’on. amico Gero Grassi, l’uomo che ha fatto del ristabilimento della verità sul delitto Moro la missione della sua ormai lunga vita politica al servizio della verità.
Vedo i loro volti, la commozione, qualche pudica lacrima nascosta, provvidenzialmente, dagli occhiali, da sembrarti loro stessi commossi per le immagini di quei terribili giorni e dalla lucida orazione del relatore.
Anch’io, in quel tragico periodo, giovane dirigente del PCI, ricevevo, quasi giornalmente, lettere minatorie da parte di cosiddetti “tribunali del popolo”.
Erano, probabilmente, gli stessi che diffondevano la menzognera propaganda “né con lo stato né con le Brigate Rosse”, giustificando, di fatto, la violenza omicida di assassini che non esitarono, un anno più tardi, ad uccidere un sindacalista operaio, Guido Rossa, colpevole di combattere il terrorismo all’interno dello stabilimento Ilva di Genova.
Fu il suo martirio, accompagnato, tuttavia, dalla postuma vittoria politica e morale.
Da quel momento fu più chiaro il legame che univa il disegno rivoluzionario di Aldo Moro (con Enrico Berlinguer) con il processo di avanzamento delle masse popolari nella piena applicazione del primo articolo della costituzione repubblicana.
Di loro, delle BR, non si parlò più se non nei tribunali, per i crimini per cui furono condannati.
Usciti di galera, senza che nessuno di loro abbia mai espresso sentimenti di pentimento, hanno poi continuato a pontificare sui mass media, gentilmente offerti al loro servizio. Forse utili idioti al servizio di potenze straniere e di una destra politica eversiva e restauratrice.
Anche in questi giorni, quaranta anni dopo, tutti loro, o quasi, sono apparsi sugli schermi pubblici e privati della nostra Italia a raccontare (ultima della lista, Barbara Balzerani) la loro verità (falsità) di vittime dell’eroica battaglia in nome del popolo.
L’affermazione ripetuta di una guerra persa tra loro e lo stato.
Miserabili, a cui la compiacenza di troppi protagonisti dell’informazione fa da megafono. Miserabili di cui la giustizia della repubblica è stata assai benevola.
Guardo a loro con disprezzo e il ricordo di Luciano Lama, il grande dirigente operaio della CGIL che parla ai duecentomila accorsi a piazza San Giovanni a Roma, dopo l’assassinio di Aldo Moro, in difesa dello stato democratico.
Un mare di bandiere bianche e rosse unite nel sogno di una grande solidarietà repubblicana.
Essi, gridò Luciano, sono solo un piccolo gruppo di assassini che attenta le basi della democrazia. La storia li condannò.
Il ricordo di Aldo Moro e dei servitori dello stato (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino) che perirono con lui rimane presente e indelebile.