Misure coercitive a scopo assistenziale: tante vittime rinunciano al contributo di solidarietà, ma perché?
Misure amministrative: ciò che ha significato per gli svizzeri fino al 1981 oggi non lo possiamo più immagine, per questo è importante non dimenticarlo. Le misure coercitive a scopo assistenziale e i collocamenti extrafamiliari prima del 1981 evocano un fosco capitolo della storia sociale svizzera. Fino al 1981 decine di migliaia di bambini, adolescenti e giovani adulti sono stati collocati in istituto o a servizio in aziende artigianali e agricole oppure internati, su decisione amministrativa, in istituti chiusi o addirittura in penitenziari, talvolta senza decisione giudiziaria. Non di rado in questi luoghi hanno patito violenze fisiche e psichiche, sfruttamenti, maltrattamenti e abusi sessuali. Le donne potevano vedersi costrette ad acconsentire ad abortire, a farsi sterilizzare o a dare in adozione il proprio figlio. Alcuni bambini e adolescenti hanno subito sperimentazioni farmacologiche negli istituti.
Nel 2016 il Parlamento svizzero ha deciso che ad ogni vittima (chiamati Verdingkinder in tedesco) dovevano andare contributi di solidarietà fino a 25’000 franchi, si poteva far richiesta fino alla fine di marzo di quest’anno, ma dagli stimati, un numero tra 12’000 e 15’000, solo 9’000 persone hanno fatto richiesta. Sul perché siano di meno, uno studio da parte della Commissione peritale indipendente CPI che dichiara che: “I lavori di ricerca evidenziano svariati motivi per i quali non tutte le vittime richiedono un contributo di solidarietà. Tali indicazioni, tuttavia, non intaccano in alcun modo l’importanza del contributo stesso. Arguire dal numero di domande che le vittime siano molto meno di quanto ipotizzato è senz’altro errato”.
Quali sono i motivi?
Per la CPI, la ricerca fa luce sui motivi per i quali le vittime non richiedono un contributo di solidarietà pur adempiendo in pieno i criteri, tra questi c’è il fatto che molte vittime sono decedute o versano in pessimo condizioni di salute. Ma anche la diffidenza nei confronti delle autorità e paura di essere diffamati e stigmatizzati di nuovo potrebbe essere, secondo la CPI, un motivo per cui tante vittime non hanno fatto la richiesta.
“Affrontare la vita svantaggiati (a causa di una scarsa scolarizzazione e formazione professionale dovute alle misure coercitive, di diffamazioni, stigmatizzazioni e traumatizzazioni), ha indotto le vittime a stare alla larga dalle autorità per tutelarsi da nuove ingerenze. L’autonomia e l’indipendenza conquistate grazie a un’elevata resilienza possono portare le vittime a non voler chiedere nulla alle autorità, nemmeno un contributo di solidarietà”, sottolinea la CPI. Inoltre “molti hanno cercato per decenni di sottrarsi a questa rivelazione tacendo agli altri il proprio passato. Non di rado infatti le misure coercitive a scopo assistenziale suscitano nelle vittime sentimenti di vergogna e il timore di una (nuova) stigmatizzazione”.
Testimonianze
“Più di 9’000 persone oggetto di misure coercitive hanno presentato domanda di risarcimento e potranno così ottenere un riconoscimento ufficiale per le ingiustizie subite finché sono ancora in vita. Queste persone rappresentano le centinaia di migliaia di vittime di misure coercitive che non hanno avuto la possibilità di assistere a questo storico momento”, è il commento da parte del team dell’iniziativa “Per la riparazione”.
Sul sito dell’iniziativa www.wiedergutmachung.ch, di cui il promotore è Guido Fluri, si possono leggere diverse testimonianze di quel periodo buio della Svizzera, come quella di Bernadette Gächter sottoposta alla sterilizzazione forzata o Michel Mischler, ex bambino collocato in istituto.
Le storie di Bernadette e Clément
Bernadette Gächter, nata nel 1954, da bambina arrivò a una famiglia affiliante di rigorosa fede cattolica a St. Margrethen. All’età di sette anni, i genitori affilianti cominciarono a avere dubbi sul suo carattere e la fecero esaminare da uno psichiatra, il quale diagnosticò alla bambina una “psicosindrome infantile cerebrale organica” (oggi nota come sindrome da deficit di attenzione o ADHD). A 18 anni, Bernadette Gächter rimase incinta e questo fatto scatenò uno scandalo nella famiglia affiliante. In seguito reagirono tutore, parroco e medico di famiglia. Infine, in una perizia destinata alla clinica psichiatrica di Wil si arrivò alla conclusione che Bernadette Gächter, “con la sua indole anormale” non era in grado di crescere un bambino e si raccomandava, dopo un aborto, la sterilizzazione della giovane. Genitori affilianti, medico di famiglia e direttore della clinica la misero così fortemente sotto pressione che Bernadette Gächter alla fine acconsentì all’intervento. Successivamente, con due operazioni cercò invano di annullare gli effetti della sterilizzazione. Bernadette Gächter è rimasta senza figli per tutta la vita.
Nel 1960, poco dopo la nascita, Michel Mischler fu tolto ai genitori inadeguati a occuparsene e dalla città di Berna fu portato nell’ospizio per bambini «Mariahilf» a Laufen. Qui trascorse i primi undici anni di vita. Per mancanza di attenzione da parte delle monache cattoliche, passò inosservato un ritardo nello sviluppo di Michel che avrebbe invece richiesto un’assistenza speciale. Di conseguenza, Michel Mischler rimase tagliato fuori dalla scuola. Nell’istituto era vittima di pesanti maltrattamenti fisici e psicologici. Michel Mischler veniva rinchiuso per notti intere in soffitta, picchiato sistematicamente, infilato a testa in giù in una tinozza d’acqua, in modo quasi da affogarlo, e veniva umiliato regolarmente con queste parole: «non sei buono a nulla, non sei nulla e non se ne ricaverà nulla». Dopo l’infanzia trascorsa in istituto, Michel Mischler non è mai riuscito a condurre una vita autonoma.
La mostra fotografica di Keystone-ATS, Verdingkinder, ritratti di Peter Klaunzer
nell’Anna Göldi Museum 31 agosto – 28 ottobre 2018 Anna Göldi Museum
www.annagoeldimuseum.ch
Fonte testimonianze e foto:
www.wiedergutmachung.ch