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26 April 2024
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STORIE di Gianni Farina

Amadeo lo zingaro, una vita di lotte e ricostruzione della memoria collettiva dell’emigrazione italiana

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Ero da poche settimane a Parigi quando conobbi quello strano personaggio di nome Amadeo. Per la verità, l’avevo già incrociato in una delle tante conferenze sull’immigrazione che si tenevano nel bel Paese a cavallo degli anni ottanta.

Un decennio straordinario, quello.

Permeato dal sacro furore della rivincita sul destino cinico e baro che aveva piegato milioni di italiani alla scelta dell’emigrazione in Europa e oltre oceano.

Sulla spinta delle nascenti organizzazioni, regionali e nazionali, degli emigrati, si erano costituiti i parlamentini consolari eletti a suffragio universale dai residenti italiani; migliaia di nostri compatrioti, usciti da una perpetua clandestinità partecipativa, affrontavano una nuova esperienza protagonista nei sindacati e nelle organizzazioni progressiste locali.

La sconfitta delle iniziative xenofobe di James Schwarzenbach e Valentin Oehen del primo quinquennio degli anni settanta, aveva squarciato il velo dell’isolamento e della solitudine.

Non più solo braccia da lavoro, Il grido di rabbia e dolore di Max Frisch aveva aperto la strada al nuovo virtuoso cannino di liberazione e rivincita sulla storia del dopoguerra italiano.

Amadeo fu e rimane un protagonista di quel tempo.

Nelle terre d’Australia prima, in Canada poi, nella sua terra ligure e nella Francia del Midi in seguito.

Sempre alla ricerca di un qualcosa in più non ancora raggiunto sulla strada del riscatto del mondo del lavoro italiano oltre confine, quasi fosse – anzi, lo era – la missione laica di tutta una vita.

Entra in ufficio, l’Amadeo.

Buongiorno. Sono il marsigliese della nostra organizzazione.

Ci siamo già incrociati senza particolari momenti di confronto.

È la volta buona per iniziare un percorso.

Un pur breve e cordiale saluto per il canonico caffè, per poi affrontare le problematiche annotate nel “Cahier de doléances”, quel libriccino indissolubilmente nero, all’interno i bianchi fogli rigati come usava un tempo la massaia italica annotando gli acquisti a credito nella mini coop locale istituita con l’entusiasmo neofita dei militanti delle organizzazioni operaie dei primi anni cinquanta.

Il salone dell’istituto italiano di cultura che impone un immediato intervento ristrutturale; le interminabili ore di attesa al consolato per un rinnovo o un disbrigo amministrativo; l’ufficio oberato da impegni di tutela e promozione dei nostri connazionali oltre ogni limite per i soli tre addetti alle mansioni quotidiane. E via di questo passo sino all’annuncio della prossima grande manifestazione commemorativa in onore delle vittime di Aiuges Mortes.

Verrà Enzo Barnabà, l’autore del libro che ricorda la strage, mi dice.

E forse Alessandro Natta, il dirigente politico autore della prefazione allo scritto che recupera un fatto delittuoso del passato dell’emigrazione italiana in Francia.

Aiuges-Mortes”, le acque morte che raccolsero, nell’estate del 1893, il sangue degli emigrati massacrati e affogati nelle fanghiglie delle saline nell’attacco ai lavoratori italiani piemontesi, colpevoli, agli occhi dei francesi, di concorrenza sleale che abbassava i diritti e i salari, provocava disoccupazione e miseria tra gli operai locali.

C’è sempre una verità in quello che accade che viene occultata, mi dice Amadeo: Il cinismo della “Compagnie des Salins du Midi” e dei suoi bestiali Kapo (caporali) nell’incoraggiare la competizione tra i poveri per un misero lavoro che innesta la scintilla della rivolta.

Fu così che la manifestazione si tenne alla presenza di centinaia di nostri connazionali, e Aigues Mortes uscì dall’oblio della storia per divenire, con la stele a ricordo, luogo e momento della memoria

Talvolta accettavo l’invito di Amadeo ad accompagnarlo in Liguria.

Abitava con Emma, la sua compagna, in una casetta sulle colline da dove potevi godere i tramonti dorati del sole nell’impatto con l’azzurro del mare oltre la bruma invernale che avvolgeva le sinuose coste della Cote d’Azur.

Serate a discutere di storia e diritti. E sino a quando Emma ci richiamava alla responsabilità del giorno che verrà.

Era previsto un incontro a Zena (Genova) presso la sede del sindacato.

Si attraversava, alla fine del viaggio, quel viadotto maledetto che dominava la città come un moloc. Un moloc che appariva all’improvviso anche venendo da Milano in autostrada. Un moloc che deturpava Zena, la città dei liguri che scrissero la storia dell’Italia brasileira e non solo. Ma questa è un’altra storia.

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