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2 May 2024
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STORIE di Gianni Farina

Idee per l’Europa che verrà

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Mi trovo di fronte alla sede dell’ambasciata italiana a Berlino.

Un crocchio di giovani italiani sta commentando i primi contatti avuti in terra tedesca.

La stessa scena la puoi osservare a Parigi, a Londra, alla fermata degli Eurostar provenienti dalla Francia o in una qualche altra metropoli europea.

Rivedo le immagini dell’incontro con i giovani laureandi, a Iasi, in Romania, giunti quassù dal beneventano per il corso di laurea magistrale in odontoiatria, grazie – affermano – ai sacrifici delle loro rispettive famiglie e ai finanziamenti previsti da Erasmus per i giovani europei che desiderano alzare lo sguardo culturale e formativo oltre i loro vecchi confini nazionali. L’Europa è cambiata, anche se ho ancora impresse negli occhi le drammatiche immagini e la desolazione dei villaggi nel devastante dopoguerra delle terre della ex Iugoslavia, la collina dei martiri di Sarajevo, Srebrenica, il ricostruito ponte di Mostar per riunire i due popoli della stessa città, pur l’uno accanto all’altro, ma altrettanto divisi dall’odio di una guerra senza vincitori né vinti. Appena eletto, nel lontano 2006, fu la mia prima e drammatica esperienza in quei Paesi e mi apparve chiaro come l’Europa, l’Unione creata dai suoi fondatori e via via divenuta più grande nel solco dei cambiamenti storici e politici del dopoguerra, sia stata, in tutti questi decenni, un baluardo della pace e della cooperazione solidale tra i suoi popoli.

Fra i tanti e molti difetti dell’Unione, dovuti spesso alla miopia dei suoi dirigenti, non possiamo né vogliamo dimenticare il merito più grande che è alla base di ogni progresso sociale e politico unitario: sessanta anni di pace. La libera circolazione delle persone che ha avvicinato milioni di giovani alla cultura dell’essere parte di un medesimo destino e, conseguentemente, dello stare assieme.

Guardo ai ragazzi di Iasi, Berlino, Londra e Parigi, e vorrei parlare con ognuno di loro. Sapere da dove vengono, cosa pensano, quali sono i loro progetti, ove vogliono andare.

Li rammento mentre incontro, sul Freccia Rossa verso Salerno, quel vecchio emigrato che dopo oltre cinquanta anni ritorna al villaggio natale sui colli del beneventano. Parlo con lui. Giunse in Svizzera nei primi anni cinquanta. Forse uno dei tanti che ho descritto in fila per la visita medica al confine di Chiasso.

Penso ai volti già vecchi e tristi di quella diaspora italiana.

E allora mi chiedo: che dobbiamo fare noi? Noi. Ognuno di noi. Per salvaguardare quel patrimonio unitario che ha unito le genti, le ha fatte più solidali, più capaci di affrontare un futuro pur denso di insidie e pericoli.

Costruiamolo assieme, quel futuro. Partendo dalla scuola, ove mi appare indispensabile che si insegni una storia, passata e presente, comune. Un apprendimento per forgiare le generazioni a venire nella cultura del senso di appartenenza.

Una scuola europea dai tanti Erasmus: della scienza, della tecnica, del pensiero e di ogni professione, perché sia progressivamente raggiunta l’armonizzazione ed il riconoscimento di ogni titolo di studio a livello europeo.

Furono l’avversione al plombier polacco e la difesa de “la force de frappe”, i pretesti per un nazionalismo antistorico in cui naufragò il progetto di costituzione europea nel referendum francese del 29 maggio 2005, interrompendo il processo unitario.

Occorre costruire il sogno di una nuova Unione partendo dalla riforma delle istituzioni europee, perché siano percepite come il luogo del sovrano democratico, più vicine ai bisogni e alle aspettative dei suoi cittadini.

Ai sovranisti degli stati nazione, eredi dei lutti fratricidi del ventesimo secolo, occorrerà contrapporre un nuovo concetto di Patria, un sovranismo patrio europeo ricco dei rispettivi patrimoni storici e culturali.

E lo si può fare in ogni campo, se si abbatte l’egoismo e la miopia che contraddistingue l’agire dei governi nazionali anche sugli esodi di massa delle genti che fuggono dalla guerra e dalla miseria.

Non si arresta l’esodo erigendo un muro e ristabilendo una vecchia frontiera, ma costruendo un nuovo concetto di cittadinanza dentro l’Unione.

Un nuovo protagonismo che sia di esempio e di insegnamento per le genti che verranno. Il “Wir schaffen das” di Angela Merkel vorrei averlo udito da tanti capi politici, anche delle forze progressiste, che pur affermano di ispirarsi a sentimenti innovativi di solidarietà.

Forse, di fronte ad una evidente disfatta culturale siamo stati tutti troppo cauti e pavidi.

È giunta l’ora di scelte coraggiose. Se ne saremo capaci, la battaglia democratica europea del 2019 vedrà il nostro riscatto e il successo non mancherà.

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