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2 May 2024
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STORIE di Gianni Farina

La deriva punitiva del diritto umanitario per gli immigrati nel nome di una fatua sicurezza

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L’esperienza interculturale della gioventù italiana in Svizzera

Stavo preparando la “conferenza sulla scuola italiana in Svizzera”. Un appuntamento di straordinaria e forte attualità.

Non si trattava più, come nel recente passato, di organizzare percorsi di studio della lingua di Dante per i nostri giovani nell’attesa del rientro in Italia, come tanti dei nostri emigrati avevano previsto nella prima emigrazione di massa degli anni  cinquanta-sessanta.

Oramai, e molti di noi l’avevano intuito da tempo, la permanenza in Svizzera si sarebbe protratta nel tempo e per il resto della vita a venire.

Lo studio dell’italiano, lingua riconosciuta come patrimonio costitutivo della Confederazione, assumeva una importanza di rilievo all’interno della scuola locale e nei cursus scolastici dei vari Cantoni. E del resto, i nostri ragazzi frequentavano già la scuola d’obbligo confrontandosi con le tante difficoltà d’apprendimento della lingua locale in un sistema scolastico altamente selettivo e penalizzante per la nostra gioventù.

Al convegno – siamo nei primi anni ottanta – avrebbero partecipato l’insieme del corpo insegnante di lingua italiana inviato dall’Italia, enti e organizzazioni addette alla tutela e promozione della nostra lingua, personalità di grande prestigio – penso a Giovanni Berlinguer- del mondo scientifico e culturale italiani.

Nacque in quel convegno, oltre tutto, l’idea di un liceo artistico italiano a Zurigo che è, oggi, patrimonio interculturale della nostra città. Lo squillo ripetuto del campanello mi annuncia una visita, improvvisa e inattesa.

È Antonio, il viso trafelato, la voce tremante, il linguaggio incerto e alquanto arraffato.

Nulla compresi sino a quando, Antonio, recuperata una momentanea tranquillità, mi spiegò il dramma di suo figlio affidato alle cure delle “sonderschule” (classi speciali) il ramo scolastico per i ragazzi – tutti, non solo gli stranieri – gravati da forti deficienze intellettive e gravi difficoltà di apprendimento.

Ne fui sorpreso e amareggiato.

Avevo conosciuto il piccolo nei tanti incontri della Svizzera orientale.

Antonio lo portava seco perché apprendesse, già dall’infanzia, il gusto dello stare assieme, ascoltare, assistere agli eventi della comunità nazionale.

Un ragazzo vivace, curioso, attento e aggrappato alla voce suasiva del babbo. Risolvemmo il problema affidando il piccolo alle cure dei centri di informazione e recupero dei figli dei nostri emigrati.

Oggi – Giuseppe il suo nome – è un professionista affermato nel campo delle moderne tecnologie di comunicazione.

Soffriva, il piccolo, l’estraneità dell’aula, cupa e sorda ai sentimenti del ragazzo straniero capitato, chissà come e perché, in quello stanzone di coetanei di cui non afferrava il linguaggio e i gesti, aggravata – oltre tutto – dalla noncurante attitudine dell’insegnante. Ricordo la storia di Giuseppe pensando alla piccola immigrata di Lodi a cui si nega la mensa in comune per la difficoltà del genitore a saldare la retta.

Vedo il volto di lei mentre racconta la scena dell’esclusione, le labbra tremanti, gli occhi abbassati nel segno di una minorità, per lei e per tanti altri, a cui l’Italia presenta il volto peggiore nell’oblio della sua storia.

Penso all’imprenditore costretto a dormire nel suo capannone per evitare i troppi furti. Spara e uccide il ladro, accortosi poi di aver ucciso, assieme a lui, anche una parte di se stesso. La violenza che impera ove manca lo stato con le sue istituzioni.

Osservo lo sgombero di un “CARA” (Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo) in ottemperanza alla nuova regolamentazione del decreto Salvini su sicurezza e immigrazione, ed alla estinzione, pressoché totale, del permesso di soggiorno umanitario che dà il diritto, per due anni, all’accesso al lavoro, alla scuola e alle prestazioni sociali generali. Una famiglia con prole che non saprà ove andare e sino a quando una mano caritatevole non gli indicherà l’approdo. Centinaia di migliaia di immigrati in cerca di un rifugio: un antro, un androne, un casale abbandonato, i porticati o gli anfratti delle stazioni prima di una espulsione che avverrà, se non in minimi casi, giammai. Leggo, esterrefatto, i linguaggi osceni e arroganti sul Web e li ascolto alla tele da politici affermati e di potere.

Una catastrofe culturale e di massa. Sì. La pacchia è finita! Ci aspettano giorni e anni bui in cui il Paese – malgrado Bertolt Brecht – avrà ancora bisogno di eroi.

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